EDITORIALE
Enrico Sassoon
Ottobre 2024
I dati di fatto sono impressionanti. Secondo le ricerche di Marketing Hub, a livello globale l’influencer marketing vale 21 miliardi di dollari, e 300 milioni di persone in tutto il mondo si considerano creatori di contenuti. Da molti anni le aziende utilizzano in misura crescente questa forma di comunicazione con investimenti sempre maggiori e risultati alterni, ma stando a Emily Hund, autrice di uno degli articoli dello Speciale di questo numero, nel complesso positivi. Scrive, infatti, che “l’influencer marketing ha funzionato”. Sembrerebbe, di fatto, che l’88% dei marketer l’abbia già utilizzato e che abbia in programma di mantenere o aumentare i livelli di spesa relativi.
Perché le aziende usano i social media e gli influencer per aggredire il mercato e catturare clienti? Perché le ricerche indicano che i consumatori ci credono, anzi, amano questa forma di comunicazione. Altri dati impressionanti dicono infatti che gli utilizzatori dei social media (da contare a miliardate) danno più retta agli influencer che ai giornalisti; e la gente è addirittura convinta che i brand siano più in condizione dei Governi di risolvere dei problemi sociali. Così, diventare influencer ha iniziato a rappresentare il sogno di molti giovani, e meno giovani.
Ovviamente, lo sappiamo, non tutto fila liscio. Molti provano a creare contenuti e ad accumulare follower, pochi ci riescono. Il rumore di fondo è assordante e per trapanarlo occorrono certo buone doti di comunicatore, ma anche parecchia spregiudicatezza. Chi compra, dall’altra parte, vuole risultati e spesso non sta a guardare troppo per il sottile, sono i numeri che contano ed equilibrio, capacità di giudizio, etica o anche solo buon gusto vengono spesso considerati un optional, e pure fastidioso.
Da qui i problemi collaterali, che vedono molti influencer legati ad aziende anche colossali (o meno, come Balocco con Ferragni) inciampare lungo la via al radioso successo. Le aziende li usano e accade che prendano le distanze solo a pasticcio fatto, danneggiando i propri risultati precedenti ma infliggendo costi a tutto il sistema.
La questione è che il settore si è evoluto in un far west sostanzialmente senza regole, né legali né professionali. Il rapporto fra influencer e mercato è un continuo tentativo reciproco di tirare la corda, da una parte le aziende e i loro marketer, dall’altra individui alla ricerca dell’Eldorado che li porti a sfruttare l’onda, finché va. In mezzo, naturalmente, le piattaforme che se la giocano in modo spregiudicato, con algoritmi che certo non hanno come priorità la disciplina e la correttezza, ma la massimizzazione del clic.
Da qui, una serie di conseguenze negative sotto gli occhi di tutti. Dovendo rilevare che la questione diventa ancora più scivolosa quando l’attività di influencer trasmigra sul piano della politica o nel mondo delle idee. Qui esplode il potenziale di distorsione attraverso strategie mirate di disinformazione e l’uso massiccio di fake che, ahinoi, con GenIA può assumere proporzioni apocalittiche.
È chiaro che, in questo quadro, la relazione fra influencer e marketing e lo stesso influencer marketing sono solo un lato di un quadro molto più ampio. Nel mondo del business occorre che le relazioni economiche e contrattuali evolvano nel segno della correttezza e della trasparenza, per evitare le sgradevoli vicende cui stiamo quotidianamente assistendo. Aziende, agenzie di marketing, esperti, influencer più o meno improvvisati devono riuscire a ricomporre un quadro che renda chiare le intenzioni e credibili le soluzioni. Le piattaforme sono chiamate a dare un contributo di responsabilità tarando i meccanismi ultrasofisticati con cui amplificano o mortificano le news in circolazione.
L’area grigia deve diminuire, e quella nera va proprio neutralizzata. In alcuni Paesi la normativa evolve in questa direzione (specie in USA, Gran Bretagna e Francia), ma altrove regole e soprattutto controlli lasciano molto a desiderare.
Resta, però, il quadro più ampio, quello che riguarda non tanto la relazione fra consumatori e mercato, bensì la capacità delle persone di impostare una propria esperienza digitale nel modo corretto, il che significa anche una relazione con gli altri nel modo opportuno. L’evoluzione dell’ultimo decennio, specie nell’ambito dei social media, non porta in questa direzione, e il caos regna sovrano. Ma la centralità dell’esperienza digitale nel mondo ibrido è ormai evidente a tutti e richiede un’attenzione finora eccessivamente trascurata a favore di una supposta libertà individuale d’espressione che travalica troppo spesso tout court il significato stesso di libertà.