ORGANIZZAZIONE
Andrea Granelli
Maggio 2023
Uno dei temi oggi al centro dell’agenda dei CEO è l’engagement, una miscela composita che unisce senso di appartenenza, voglia di fare e consapevolezza del proprio contributo all’azienda. Potremmo vederla come l’energia in potenza di un’organizzazione, quell’energia che – se ben canalizzata – si trasforma in performance eccellente e lealtà all’azienda. Una precondizione, dunque, al successo di ogni azienda.
Ma perché oggi il tema dell’engagement è così rilevante? L’eccellenza nella performance ha sempre richiesto questo ingrediente, che era fino a ieri determinato nei fatti dalla qualità del lavoro, dalla dimensione retributiva, dal ruolo e dalla visibilità conseguita. Lo stress era perlopiù legato al superlavoro e alle deadline stringenti.
La maggiore importanza che viene data all’engagement nasce dunque dalla crescita di rilevanza di concetti come qualità emotiva dell’ambiente di lavoro, work-life balance, benessere individuale, senso del lavoro e dalla conseguente crescente difficoltà nelle aziende di attrarre e ritenere le risorse se queste dimensioni non sono sufficientemente presidiate.
Un tempo, inoltre, le difficoltà di attraction & retention erano maggiormente concentrate sui talenti o sulle figure più richieste dal mercato – pensiamo ad esempio al mondo del software o ai venditori. Oggi, invece, la criticità si sta diffondendo e coinvolge soprattutto i giovani ma anche le figure intermedie, come ad esempio il middle management o quei ruoli più esposti ai rischi del burnout.
Un fenomeno complesso
Quali sono le cause? Il fenomeno è complesso e articolato e non è corretto semplificarlo per trovarne le cause scatenanti. Certo è che le pratiche di lavoro emerse in modo emergenziale per reagire al Covid e la crisi che stiamo vivendo – che tende a rendere fosche le prospettive future – ha aumentato in modo generalizzato il senso di insicurezza, lo stress e il burnout emotivo. In particolare, il lungo lockdown ha creato in molti un senso di isolamento, minando anche il senso di appartenenza e quindi la fedeltà all’azienda. Non solo. Ha anche dimostrato – con i dovuti accorgimenti e naturalmente a seconda del ruolo – che era possibile lavorare con efficacia anche da casa e, non per tutti ma certamente per molti, questa ulteriore opzione rappresentava una modalità non necessariamente alternativa ma complementare nell’intendere il lavoro. Un’opzione in più, dunque.
Il lockdown ha pertanto aperto una riflessione sistematica sulla flessibilità lavorativa – che è solo una parte del tema dell’engagement, anche se non trascurabile – e sulle cause della disaffezione e del rilevato indebolimento sia dei legami tra chi lavora frequentemente da casa e il proprio team sia rispetto all’identità aziendale. È in questo contesto che nasce il fenomeno della Great Resignation e che assume una nuova rilevanza il purpose aziendale.
La nuova centralità del purpose
Anche l’attenzione al purpose non è certo una novità, ma la sua centralità nasce proprio per rafforzare il senso di appartenenza e quindi la motivazione e l’energia che deve essere messa in gioco per arrivare a performance eccellenti. Per questo motivo la lettera agli azionisti scritta da Larry Fink – CEO del Fondo BlackRock – nel gennaio del 2018 sulla centralità del purpose è stata un punto di snodo. La rilevanza del fondo ha fatto sì che le dichiarazioni del suo CEO fossero capaci di riorientare i criteri di investimento della finanza mondiale e del suo ecosistema. E così è stato, tanto è vero che quattro anni dopo, la lettera annuale di Fink ha ribadito e rinforzato l’importanza del purpose, legandolo a quello della sostenibilità, non solo economica: «Sustainability and purpose should act as “north star” for business».
Il purpose è dunque sia una traccia che orienta le aziende verso obiettivi sfidanti ma di cui sentirsi fieri, sia un collante che ricompatta l'organizzazione verso un progetto che va oltre la soddisfazione dei clienti e la remunerazione degli azionisti. Sarebbe più corretto, però, parlare di sense of purpose: il purpose da solo, infatti, non è sufficiente; rimane una dichiarazione di intenti. Deve diventare senso e significato agito per poter mettere in moto l’engagement delle persone e trasformarsi in comportamenti virtuosi. Deve dunque tradursi agilmente in purpose individuale e talvolta bisogna aiutare i collaboratori a farlo emergere a delinearlo; non tutti, infatti, hanno questa consapevolezza del loro contributo al purpose aziendale.
Come noto, infatti, le persone che si sentono parte di un progetto importante che li trascende e che lascia dei segni tangibili nella società in cui vivono e operano diventa un motore di motivazione fondamentale, che si porta dietro, in modo quasi naturale, voglia di fare, determinazione e senso di appartenenza.
Per facilitare questo processo di traduzione dal purpose aziendale a quello individuale che attiva e rafforza l’engagement, due professori – uno di Insead e una della Harvard Business School (Mark Mortensen e Amy C. Edmondson, “Ripensate la proposta di valore per i vostri dipendenti”, Harvard Business Review Italia, gennaio-febbraio 2023) hanno proposto un metodo per costruire una proposta di valore attrattiva per i dipendenti, organizzata su quattro componenti: offerte materiali, opportunità di sviluppo e di crescita, connessione e comunità, significato e finalità (purpose).
Queste componenti differiscono ovviamente nel modo in cui vengono sperimentate dai lavoratori, ma soprattutto si dovrebbero gestire in modo olistico per fare sì che la focalizzazione su una non ne comprometta un’altra. In molte aziende, invece, questi quattro fattori sono gestiti separatamente: la funzione HR cura la crescita e lo sviluppo, per esempio, mentre il team di vertice ha l’esclusiva sul purpose. Le imprese tendono anche a metterli in sequenza… Questo approccio ignora il fatto che i cambiamenti introdotti in un fattore incidono sugli altri.
Oltretutto il sense of purpose è ancora più importante in tempi di crisi, dove tutto è incerto, soprattutto il futuro. Lo ribadisce con grande potenza Nietzsche in un suo celebre aforisma: «Chi ha un perché nella vita può sopportare quasi ogni come». La crisi rafforza anche l’importanza del senso di appartenenza, che diventa un potentissimo motore di engagement, in quanto i timori e le incertezze indeboliscono la dimensione identitaria e richiedono pertanto un suo rafforzamento collettivo: l’unione fa la forza.
Trasformare le sfide in opportunità
Superata la fase più calda, la Great Resignation si è trasformata in Quiet Quitting, fenomeno apparentemente meno impattante ma più subdolo e preoccupante, che si manifesta con un distacco emotivo dal lavoro tanto da adoperarsi solo per il necessario. Non tutte le aziende riescono a tracciare il fenomeno, per sua natura difficile da misurare.
Le evidenze del mercato ci dicono, però, che in questo quadro molte aziende innovative stanno trasformando la sfida dell’engagement in opportunità. Colgono cioè questa occasione per perfezionare i modelli organizzativi, per rileggere in modo diverso priorità e valori, per definire nuovi meccanismi che rendono più forte l’aderenza ai valori e all’identità aziendale. Il fine ultimo è sempre la performance, ma senza queste pre-condizioni il compito diventa sempre più arduo.
In alcuni casi il potenziamento dell’engagement ha come fine contrastare la crisi di valori, di appartenenza e di motivazione; in altri diventa strumento per aumentare le capacità innovative dell’azienda generando più opportunità di business. In altri casi ancora, invece, l’engagement vuole contribuire a rafforzare l’intelligenza emotiva dei dipendenti, la loro capacità di relazionarsi all’interno dell’organizzazione ma anche di proteggersi da stress, crisi e incertezza.
Tra i casi più interessanti del primo filone vi è Microsoft, che ha progettato una soluzione insieme alla Ross School of Business. L’azienda ha dato innanzitutto piena flessibilità ai propri lavoratori. D’altra parte, nel mondo del software non ci sono particolari vincoli produttivi legati alla fabbrica: il PC portatile è infatti la fabbrica. Oltre a ciò, quasi scontato in questo settore, ha introdotto in modo operativo il concetto di “fioritura” (thriving) dei propri impiegati, anteponendo una sua misura – basata sul livello di “energizzazione” e di empowerment relativi a come ciascuno interpreta il suo ruolo – a quella dell’engagement vero e proprio, che viene quindi considerato strumento e non fine. Lo slogan del progetto è «thriving as the antidote to languishing» in quanto il “fiorire” consente a ciascuno di svolgere un lavoro pieno di significato, sentendosi nel contempo ricchi di energia e potenzialità.
Per dare corpo a questo metodo, è stata ridefinita la piramide dei bisogni di Maslow, creando il framework delle 5P – Pay, Perks, People, Pride and Purpose (retribuzione, vantaggi, persone, orgoglio e purpose, figura 1) – che mette in ordine crescente le leve per arrivare al thriving. Alla base vi è naturalmente la struttura retributiva, ma poi contribuiscono incrementalmente alla fioritura le gratifiche integrative, una maggiore libertà a gestire e pianificare la dimensione umana legata al lavoro, per poi arrivare all’orgoglio – potente motore di appartenenza che diffonde autenticità e crea anche comportamenti imitativi – fino al collante più importante: fare proprio il purpose aziendale traducendolo in un progetto personale.

Relativamente al secondo filone, una modalità emergente è il cosiddetto entrepreneurial engagement e cioè vedere come aspetto determinante dell’engagement l’autonomia imprenditoriale: il poter affrontare cose mai fatte, il poter sperimentare, assumere rischi – anche se contenuti – legati alla possibilità d’interpretare gli obiettivi aziendali in modo anche particolarmente creativo e personale.
Questa modalità incomincia a diffondersi a livello internazionale soprattutto nell’ambito della pubblica amministrazione – in particolare nelle amministrazioni comunali delle città più innovative. Ma è sempre più frequente anche nelle aziende, soprattutto quelle operanti nel mondo del digitale. Tra le prime aziende nel cogliere l’importanza di questo fattore vi è Google, che lascia spazio ai propri collaboratori per poter studiare, proporre e addirittura lanciare nuove business idea. Se promettenti, l’azienda, oltre a concedere un po’ di tempo remunerato per lavorare sul progetto personale è anche disponibile a finanziare parte della sua operatività. È l’opzione chiamata “20% time” (figura 2), lanciata nel lontano 2004 e grazie alla quale l’azienda incoraggia i dipendenti a lavorare su progetti che li interessano. Alcuni dei prodotti più conosciuti di Google – come ad esempio Gmail e AdSense – sono nati proprio in questo modo. Si tratta di un nuovo capitolo della Corporate Entrepreneurship, dove non è solo l’azienda a proporre le direttrici evolutive della ricerca e sviluppo interna ma sono gli stessi dipendenti che devono convincere della potenzialità della propria idea e ricevono un budget (tempo e risorse) per dimostrare l’attendibilità della loro proposta. Il metodo ha avuto talmente tanto successo che si è diffuso – grazie ai molti manuali e libri prodotti – in molte altre organizzazioni.

Infine, fra i casi di potenziamento dell’engagement attivato dalle dimensioni più soft, interessante è il progetto sviluppato all’interno del Gruppo Autostrade e centrato sul capitale emotivo. Poiché una parte del capitale umano – le competenze strutturate e codificabili – verrà progressivamente assorbita dal digitale, è necessario definire meglio il contributo delle risorse umane al valore dell’impresa non limitandola alle competenze tecnico-produttive. Il cuore del capitale emotivo sono infatti alcuni aspetti personali che aiutano a bilanciare fra razionalità ed emotività e – se ben collegati alla passione personale, a un set completo di soft skill (schematizzate nel framework dell’albero) e a un solido purpose aziendale – favoriscono il gioco di squadra, il senso di appartenenza, il benessere collettivo e, soprattutto, l’engagement (figura 3).

Questo insieme di componenti riassunto nel concetto di capitale emotivo va visto come uno scrigno che contiene e protegge tutti questi elementi generativi, e il cui valore eccede i contributi dei singoli, superando pertanto la semplice sommatoria dei capitali emotivi dei membri. Uno dei principali output del progetto è stato l’allocazione progressiva – nel budget – del tempo necessario per alimentare il capitale emotivo dell’azienda, identificando e misurando tre specifiche attività: people management, formazione e attività per rafforzare il Wellbeing e il senso di appartenenza.
Un esempio interessante, collegabile ai tre filoni finora tracciati e che si distingue per originalità e semplicità applicativa, è offerto dal Gruppo Angelini Industries, il quale ben s’inserisce in questo flusso di innovazione dell’engagement, visto che la centralità delle risorse umane è sempre stato un aspetto fondativo del suo fare business.
L’attenzione a misurare e monitorare il benessere organizzativo è una pratica che Angelini ripete con cadenza costante, circa ogni due anni, attraverso l’ascolto delle sue seimila persone, non solo in Italia ma in tutte le geografie in cui è presente: Europa, America, Asia. Lo scorso novembre 2021, l’osservazione ha messo in evidenza interessanti sintonie e altrettante differenze fra le società operative e i cluster funzionali, a testimonianza di un modello organizzativo complesso che si sforza di consolidare punti di contatto fondativi e valoriali nella sua eterogeneità.
Fra i molti temi emersi dalla ricerca uno dei più interessanti è quello intergenerazionale. Temi come il bisogno di apprendimento e di condivisione o approccio al cambiamento si sono visti avere una valenza universale a tutte le classi di età. I più giovani puntano alla crescita, si alimentano di conoscenza e ricercano opportunità per sfidare lo status quo. Le generazioni più adulte, invece, apprezzano la possibilità di condividere con altri quanto appreso e vissuto, hanno un maggiore senso di consapevolezza e la necessità di avere una prospettiva chiara dello scopo quando si affrontano situazioni mutevoli. Le due visioni sono complementari e offrono interessanti spazi di sinergia e contaminazione che possono derivare da momenti di contatto.
D’altro canto, è emersa chiaramente l’evidenza che diverse classi generazionali hanno diverse sensibilità su che cosa motiva il loro engagement e richiedono quindi strategie diversificate. Proprio per questo, a seguito della conclusione e dell’analisi dei risultati della survey, Angelini Industries ha costituito un team di lavoro, rappresentativo delle differenti generazioni al lavoro, che ha ideato un metodo originale di identificazione, selezione e prioritizzazione delle iniziative di engagement.
Questo metodo ha consentito di gestire l’articolazione del Gruppo Angelini Industries valorizzandone gli aspetti che generano valore per tutti se trattati in maniera omogenea dalle società operative e da tutte le generazioni, lasciando nel contempo totale flessibilità su tematiche legate a specifici contesti. È stato quindi creato un algoritmo con il quale Angelini Industries seleziona e prioritizza le iniziative che popolano il suo “engagement plan di gruppo” (figura 4). L’algoritmo, che si basa su 3 criteri di selezione: allineamento delle iniziative ai valori del gruppo, fattibilità e scalabilità intergenerazionale, non solo ha aumentato l’omogeneità valutativa delle iniziative, ma ha anche sensibilmente semplificato la scelta delle azioni su cui concentrarsi, accelerando la messa a terra degli stimoli raccolti dal percorso di ascolto. Inoltre il metodo – per la sua iteratività – rende naturale la sua continua evoluzione tramite l’introduzione di nuove proposte, purché siano in linea con i criteri di selezione – in primis la coerenza con i valori di gruppo e la loro concreta fattibilità intercompany.

La sfida ora è del tutto aperta: inizia un viaggio, verranno lanciate le iniziative selezionate e misurati i risultati, sarà interessante tornare a parlare dell’applicazione dell’algoritmo e la sua capacità generativa di un piano d’engagement efficace.
Cosa si può fare di più?
I casi riportati offrono molteplici spunti di riflessione e sono facilmente estendibili ad altri contesti.
Volendo indicare alcuni percorsi evolutivi che possono germinare dalla lettura degli esempi riportati, tre sembrano particolarmente promettenti.
Il primo è la segmentazione dei bisogni, che può arrivare fino a una sorta di “iper-personalizzazione”, una personalizzazione quasi sartoriale del rapporto di lavoro. Una chiara consapevolezza e riconoscimento del contributo di ciascuno non solo agli obiettivi economico-finanziari dell’impresa, ma anche al suo purpose. Spinta al massimo, la personalizzazione del lavoro trasforma i segmenti in singoli individui. È la versione organizzativa del “market-of-one”, il potente concetto di marketing che spinge la personalizzazione dei prodotti e servizi fino al singolo consumatore – che diventa un mercato a sé stante – e che, quindi, ottiene qualcosa di unico e completamente adattato ai suoi bisogni e al suo stile di consumo.
Un secondo importante filone è legato al contributo dei luoghi nel creare engagement. Non si tratta solo della crescente importanza della casa come secondo ufficio, o del design suggestivo per rendere gli spazi aziendali attraenti al fine di aumentare la voglia di stare in sede e potenziare anche a livello visivo la corporate identity. Il contributo dei luoghi può essere molto più potente: molti studi, corroborati dalle più recenti scoperte della neuroscienza, dimostrano che i luoghi (anche di lavoro) non sono solo dei contenitori funzionali per ospitare persone ed attività, ma possono dare un contributo emotivo e ispirativo molto potente.
Forse, però, al di là delle molte tecniche e riflessioni fatte, il tema centrale dell’engagement rimane la natura stessa del lavoro e la sua centralità nella vita e nel senso profondo dell’essere umano. Lavorare dunque non solo per ottenere uno stipendio e avere di che vivere, ma per finalizzare la propria presenza sulla terra e avere un “perché” per vivere. E qui l’esperienza delle corporation che stanno affrontando il tema dell’engagement con originalità, metodo e passione, ci può venire in aiuto.
Andrea Granelli è fondatore e presidente di Kanso.