EDITORIALE

Non solo talenti

Enrico Sassoon

Giugno 2023

Non solo talenti

Sembra che l’espressione “talent war” sia stata introdotta per la prima volta nel 1997 in un articolo della rivista Fast Company ma, al di là delle definizioni, le aziende da sempre cercano di attrarre e trattenere i collaboratori migliori, se ovviamente ne hanno la possibilità e le risorse. Specie nella nostra era di crescente intensità tecnologica, enfatizzata dal nuovo impatto dell’intelligenza artificiale generativa, riuscire a inserire nell’organizzazione persone non solo con le migliori competenze, ma soprattutto con la migliore metodologia di apprendimento, può fare la differenza. E il punto delle capacità di apprendimento è centrale: data la sempre più rapida obsolescenza di conoscenze e competenze, persone capaci di imparare con continuità rappresentano il migliore investimento possibile.

Ma, naturalmente, in un’organizzazione non ci sono solo i migliori talenti, ma anche tutti gli altri. È ben vero che oggi ci sono aziende che si propongono di far crescere tutti i dipendenti perché “a suo modo, ciascuno è un talento”, ma di norma la gestione e i programmi di crescita dei non-talenti sono alquanto diversi. Non a caso, nello scorso numero di aprile, abbiamo trattato il tema dei “colletti nuovi”, espressione con cui si è voluto definire i dipendenti che non rientrano nei pesi massimi aziendali, coloro che quasi sempre non dispongono di una laurea o di un master, ma che costituiscono la base su cui nei fatti si poggia l’attività dell’organizzazione. Nel suo articolo, Colleen Ammerman citava il caso, tra gli altri, di IBM che, per allargare un “talentodotto” troppo stretto, ha operato una revisione generalizzata dei propri metodi di assunzione, in modo da creare delle rampe di accesso per persone che prima venivano ignorate e poter attingere a un bacino ampio di lavoratori che hanno buone capacità, ma non una laurea.

Nello Speciale di questo numero, trattiamo un tema complementare: quello dei dipendenti meno pagati, che non sempre coincidono con quelli meno preparati, ma sono invece spesso relegati in ruoli poco visibili, anche se in molti casi di frontline. Questi dipendenti sono inquadrati in circuiti lavorativi dai quali hanno scarse o nessuna possibilità di fuoriuscire, e sono inseriti in meccanismi retributivi sostanzialmente bloccati. Le aziende ritengono, in questo modo, di contenere i costi, ma in realtà si autoinfliggono danni di cui hanno scarsa percezione.

Come si auto-danneggiano le aziende? Non riconoscendo il contributo fornito dai dipendenti meno pagati all'esecuzione delle strategie, non misurando i costi occulti di un turnover continuativo, non adottando pratiche gestionali che potrebbero migliorare la produttività dei salariati e incoraggiarli a rimanere e a prosperare in azienda, dedicando un'attenzione molto maggiore - in termini di selezione, sviluppo, feedback operativo, progressione di carriera e mentoring - agli stipendiati rispetto ai salariati, anche se questi ultimi sono più del 40% della forza lavoro. È un modello sbagliato, scrivono Fuller e Raman, perché carica le aziende di costi diretti e indiretti, tra cui un tasso di ritenzione più basso e un assenteismo più elevato, più straordinari, dipendenza da agenzie esterne per l'assunzione di collaboratori a termine, selezione e formazione costante di nuovi addetti, abbassamento del morale, perdita di conoscenze istituzionali e di processo, perdita di fiducia da parte dei clienti, danno d’immagine, produttività stagnante o in calo. E perché fa diminuire i ricavi.

Da qui l’invito alle aziende a riconsiderare le loro politiche del personale per tenere conto in altro modo di questi preziosi collaboratori. Un invito che, in un Paese come l’Italia che conta quasi 3 milioni di NEET (giovani sotto i 30 anni che non lavorano, non cercano lavoro e non studiano) in anni in cui in media 2 milioni di persone rassegnano volontariamente le dimissioni, ha un peso da non trascurare. E che diventa ancora più pressante in considerazione di una forbice salariale che si amplia ogni anno.

Nel leggere questo numero della nostra rivista ci si potrebbe chiedere se quanto ora evidenziato non sia in qualche modo in contraddizione con l’articolo di Avery e Greenwald, che sollecita ciascuno di noi a costruirsi un personal brand di valore che metta in luce le nostre caratteristiche migliori e ci spiani la strada per il successo. La risposta è, a tutti gli effetti, negativa. L’invito alle aziende a tenere più conto delle reali competenze delle persone che non dei titoli di studio e a considerare l’intera gamma dei collaboratori ai diversi livelli e non solo di quelli individuati come più talentuosi è, semmai, del tutto coerente con lo sforzo che ogni lavoratore è giustificato a fare per mettere in evidenza le proprie doti e cercare di salire nella scala delle responsabilità, ma anche delle soddisfazioni. Quanto più cresce la complessità delle organizzazioni, tanto più diventano rilevanti le politiche rivolte alle persone, ma anche le caratteristiche individuali di ciascuna di esse.

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