LE TRASFORMAZIONI NEL MONDO HR/11

Nuovi modelli valoriali e di cultura manageriale

Ornella Chinotti e Andrea Granelli a colloquio con Antonio Liotti

Gennaio 2023

Entrati in pieno nel 2023, sembra essere arrivato il momento di tirare le prime somme di questo percorso sulle grandi trasformazioni in atto nel mondo HR. Tante le figure stimolanti incontrate, tanti gli spunti emersi, molte le suggestioni che ci portiamo a casa. E allora, con l’occasione di fare i nostri più sentiti auguri ai nostri “venticinque lettori” di manzoniana memoria, chiudiamo in bellezza riportandovi il dialogo con il nuovo Chief People & Organization Officer del Gruppo Leonardo, Antonio Liotti.

 

Iniziamo con una riflessione che riguarda la trasformazione del business e il conseguente impatto sulla struttura del lavoro e sullo sviluppo delle persone in Leonardo.

La trasformazione del mondo del business in generale e della società, ci sta accompagnando in realtà dall’inizio del secolo. Siamo passati attraverso una serie di fasi di grande cambiamento e la società ha vissuto momenti che inevitabilmente hanno avuto forti riverberi sul business. Il nostro secolo si è aperto nel 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle, si è poi passati costantemente attraverso crisi finanziarie sino ad arrivare all’accelerazione degli eventi negli ultimi anni: la pandemia, il conflitto in Ucraina, la situazione geopolitica, i riflessi sulla crisi energetica e, infine, l’inflazione. Tutto ciò si è innestato su una trasformazione profonda, ambientale e digitale, che ha messo costantemente alla prova il mondo del lavoro creando la necessità di continui adeguamenti.

Come conseguenza di questi cambiamenti, è mutata anche la relazione tra il dipendente e l’impresa. Il senso del lavoro è profondamente trasformato: prima il lavoro era soprattutto un mezzo di sussistenza che consentiva alle persone di sopravvivere e assicurare il futuro alla famiglia. La principale aspettativa che le persone avevano nel valutare possibili datori di lavoro era quindi la sicurezza del posto e la stabilità economica e le grandi aziende come Leonardo facevano leva sulla stabilità come strumento di attraction.

Col mutare dei tempi, il lavoratore ha iniziato a considerare l’azienda non più solo come soggetto che garantiva una retribuzione stabile, ma che garantiva anche il riconoscimento sociale, attraverso lo sviluppo della carriera e la realizzazione professionale.

Oggi invece nei processi di selezione ci confrontiamo con giovani che esprimono nuovi interessi e bisogni. Sono meno interessati alla stabilità del posto di lavoro e ai meccanismi tradizionali di riconoscimento del ruolo. Il loro interesse è invece rivolto al significato del lavoro e al modello valoriale; vogliono lavorare CON l’impresa e non PER l’impresa, partecipando alla condivisione dei valori e del ruolo che l’impresa svolge all’interno della società. L’azienda diventa un mezzo per consentire al singolo di perseguire un obiettivo ben più ampio, che è quello di dare un contributo e lasciare il segno nella società attraverso quello che è l’operato dell’azienda. Nell’ultimo anno Leonardo ha lavorato molto per individuare le leve più significative di attraction coerenti con queste trasformazioni.

Questo comporta un cambiamento nella gestione e nello sviluppo di questi giovani che entrano in azienda. La famiglia HR e i manager di linea stanno lavorando congiuntamente per adottare un approccio che risponda a queste nuove aspettative di coinvolgimento, realizzazione, trasparenza meritocrazia e riconoscimento all’impresa. 

 

Quale influenza ha avuto la crisi pandemica nella gestione dei collaboratori?

La gestione delle persone da remoto ha messo in evidenza che i modelli di leadership precedenti alla pandemia non riuscivano a fotografare l’evoluzione delle competenze di leadership. Gestire da remoto significava puntare molto di più sulla relazione di fiducia che sul controllo. La fase “ibrida”, in cui alcune persone lavoravano da casa ed altre erano presenti nei luoghi di lavoro, ha messo in evidenza la minore preparazione nel gestire la “pluralizzazione” dei luoghi di lavoro. 

Tuttavia, aver adottato il modello ibrido ci ha consentito di portare a bordo persone provenienti dai settori come il cyber, l’elettronica, professionisti che non avrebbero altrimenti considerato interessante il progetto aziendale Leonardo, perché ne identificavano soprattutto i limiti rispetto a ciò che offrivano aziende snelle, agili e con pochi dipendenti.

Questo vantaggio, giocato nella fase di reclutamento, deve essere però valorizzato anche nella fase di gestione delle persone.  Per questo motivo abbiamo lavorato sulla maturazione della cultura manageriale, introducendo nella valutazione dei manager nuovi elementi come la capacità di gestire la complessità e le fasi di trasformazione.  Inoltre la valutazione attenta su quanto la pandemia ci avesse insegnato, cioè la rapida accelerazione delle competenze manageriali unite a quelle digitali ha generato consapevolezza su quanto sia necessario un costante aggiornamento. I manager oggi sono chiamati a gestire fino a cinque generazioni di lavoratori oltre alla diversità di provenienza geografica e di genere: questo significa gestire nuove e differenziate aspettative e mostrare la trasparenza dei processi di valutazione e dei processi di riconoscimento del merito.

 

Quanto la potenza valoriale che i giovani presentano è davvero introiettata o è solo materia di slogan?

È probabile che ci sia molto di raccontato e non sempre riscontrato. Nella misura in cui ci fermiamo all’idea della sostenibilità, intesa come la necessità che l’azienda si preoccupi delle generazioni future utilizzando con attenzione le risorse per fornire le stesse possibilità a tutte le generazioni, ci riferiamo ad uno slogan molto caro a tutti.

Leonardo, come player dello Spazio e della Sicurezza, da sempre ha scontato una sorta di tabù collegato al fatto che lavorare in questo mondo significa anche non avere pregiudizi di natura ideologica rispetto all’idea di occuparsi della difesa. Probabilmente, nostro malgrado, oggi il conflitto in Ucraina ci sta insegnando che è vero che l’armamento porta anche alla difesa, cioè che l’armamento diffuso tra i paesi sia il più grande deterrente impedendo che il conflitto propaghi con utilizzo di armi più pesanti. Quello che ha fatto sì che Leonardo diventasse un player attrattivo per i giovani è stata la conversione che negli ultimi anni l’azienda ha avuto, rappresentandosi non più come un’azienda che si preoccupa di assicurare la sicurezza del mondo attraverso la difesa, ma come un’azienda che attraverso la diffusione della tecnologia diventa un acceleratore del progresso digitale e sociale delle comunità in cui vive. Questa trasformazione della vocazione di Leonardo si concretizza, attraverso la rete di partnership, con le università, con la scuola superiore e ITS, alimentando una programmazione didattica che formi mestieri del futuro. Tramite la rete di laboratori, la ricerca e l’innovazione non sono più applicate ai prodotti e servizi erogati ma sono finalizzate alla partecipazione e allo sviluppo tecnologico dei paesi su cui operiamo. Ci siamo accorti che tutto questo fa molto presa sui giovani, sia che ci credano profondamente sia che abbiano solo il bisogno di raccontare, sui social o agli amici, che fanno parte di un progetto concreto di sviluppo sociale.

In questo passaggio c’è da considerare anche un cambiamento culturale: per le generazioni precedenti era importante “avere” l’esperienza, mentre questa è la prima generazione che dice “ho fatto” l’esperienza. In fondo è un modo diverso di vivere il lavoro, come fosse un passaggio transitorio in cui la definitività non è ricercata, anzi costituisce una gabbia. Il concetto di definitività una volta rassicurava, mentre oggi invece preoccupa e viene percepito come un limite.

Il fenomeno della Great Resignation è un trend che in questo momento preoccupa molte organizzazioni a livello globale; in Leonardo non lo abbiamo riscontrato ed il turnover è rimasto quello fisiologico.

L’unico elemento critico è che, mentre prima le dimissioni erano concentrate su fasce di lavoratori particolarmente esperti che dopo vent’anni in azienda sentivano bisogno di cambiare, oggi questi lavoratori probabilmente sono rassicurati dall’idea di progetto aziendale. Invece i lavoratori che spesso perdiamo sono quelli che sono entrati in azienda da circa due anni, e per due motivi: o sono entrati già con l’idea di massimizzare in due anni l’esperienza per poi andare a muoversi altrove, oppure non hanno ravvisato all’interno dell’azienda la piena corrispondenza con quanto era stato loro promesso.

L’azienda quindi ha una grossa responsabilità: far sì che le promesse fatte in sede di recruiting abbiano riscontro nella la realtà, attraverso un approccio di Talent Management trasparente e coerente. Se queste promesse non vengono mantenute il rapporto fiduciario tra persona e organizzazione si incrina o addirittura si rompe.

 

Le organizzazioni ora più che mai hanno la forte responsabilità di mantenere l’employability: le ricerche mettono in evidenza che i dipendenti, nell’ultimo anno, dicono di avere appreso nuove skill, mentre gli HR rilevano un forte skill gap della forza lavoro. Registrate anche voi questa asimmetria percettiva?

Credo che ci sia consapevolezza generalizzata e diffusa sull’idea che le competenze oggi vanno mantenute costantemente aggiornate quindi dell’importanza dei sistemi professionali.

Oggi noi facciamo sempre reskilling, ma ancora lo stiamo facendo traguardando competenze a noi note: in breve, immaginiamo l’evoluzione delle competenze e proviamo a tenerle aggiornate. La verità è che la responsabilità delle imprese e ancor di più dei sistemi educativi e formativi nazionali, della scuola e dell’istruzione, è quella di intercettare le evoluzioni future.  Si lavora spesso su progettare contenuti formativi e didattici, che richiedono un certo tempo di implementazione, per formare in molti casi profili professionali obsoleti in uscita dal mondo della scuola dell’istruzione. Lo skill gap di ruoli come data analyst, cyber security, ha determinato un numero consistente di iscrizioni a master post universitari e corsi universitari specialistici che farà sì che probabilmente nei prossimi 3- 4 anni ribalteremo la situazione da una carenza attuale passeremo ad un surplus di offerta rispetto alla reale esigenza.

In questo caso la soluzione potrebbe essere un workforce planning strategico.

I sistemi organizzativi complessi sono chiamati oggi ad intercettare l’evoluzione del business, dei mercati e dei propri prodotti per far sì che sia chiara la visione di ciò che occorrerà fra 5- 10 anni, lavorando oggi affinché l’università, la scuola, i sistemi di Academy delle aziende e le iniziative formative aziendali possano in qualche modo ridurre il gap. Ciò significa preparare lavoratori per arrivare ad un profilo professionale quanto più vicino al profilo di cui le organizzazioni hanno bisogno. Questo processo andrà sempre per approssimazione, perché per prevedere oggi l’evoluzione delle competenze dovrò sempre di più avvalermi dell’umanesimo digitale, cioè di algoritmi di intelligenza artificiale che forniscono il trend delle competenze, interpretate però da occhio umano che conosce il business ed è in grado di leggere e interpretare le informazioni per creare il giusto adattamento. Probabilmente tutto questo sconterà dei livelli di approssimazione che possono essere integrati da due ingredienti: 

Il primo, cercare persone che indipendentemente dalla rispondenza immediata di un profilo professionale abbiano un “long life learning”, cioè che abbiano la capacità e la voglia di rimettersi in gioco, di aggiornare costantemente il modo con cui lavorano e le loro conoscenze.

Il secondo, creare un contesto aziendale nel quale questa attitudine sia costantemente sfidata: noi stiamo provando attraverso modelli di formazione innovativi, ad esempio abbiamo introdotto la piattaforma Corsera. Il valore di questo investimento è quello di consentire a chiunque di collegarsi liberamente alla piattaforma per sfidarsi ed accedere a qualsiasi tipo di formazione indipendentemente dal legame attuale o potenziale al ruolo di oggi/ domani. Il presupposto di questa iniziativa è stato quello di mettere a disposizione strumenti perché tutti si sentano ingaggiati nell’elevare il loro livello di cultura e conoscenza.

 

Nel processo di autoapprendimento una delle difficoltà riscontrate nei manager è quella di collegare i diversi contenuti, superare i silos dei diversi approcci, ragionare in modo critico e dare continuità all’esperienza di apprendimento. Come avete affrontato queste potenziali criticità?

Le aziende spendono all’anno 300 miliardi di dollari per mappare l’engagement, ma l’engagement cala.

E fortissimi sono gli investimenti annuali per attività di formazione sul program management, ma la grande maggioranza dei programmi è in ritardo. La complessità e la varietà dei contenuti aumenta vertiginosamente ed è difficile non solo rimanere aggiornati, ma sistematizzare la conoscenza. Lo sforzo che cerchiamo di fare è quello fornire un metodo di apprendimento che poggi sulle competenze soft delle persone, facendo affidamento a quelle dimensioni cognitive, relazionali, motivazionali ed emotive di cui le persone dispongono come naturale predisposizione. È su questa base che possiamo dare loro un metodo per appropriarsi di nuovi contenuti. Le app che si stanno diffondendo per facilitare la sintesi di contenuti non rappresentano la strada che vogliamo percorrere; piuttosto,noi cerchiamo di fornire un metodo che, sia sulla base delle attitudini personali che delle sfide di business, consenta di delineare dei percorsi di sviluppo, manifestando fiducia nelle capacità di discernimento delle persone.

In questa evoluzione cambia anche il profilo professionale della persona che all’interno della funzione risorse umane si occupa di formazione. Tradizionalmente questo ruolo si occupava di attività molto amministrative e di progettazione di contenuti. L’evoluzione del ruolo pone l’accento sul discernere tra i contenuti disponibili e dare suggerimenti in linea con le esperienze e gli interessi dei fruitori; questo con la consapevolezza che non sarà la conoscenza a cui si accede attraverso la piattaforma a fare la differenza ma la sollecitazione all’apprendimento e l’attivazione del “growth mindset”.  A ciò affianchiamo un’attività formativa, non più autonoma ma promossa dall’azienda allo scopo di continuare a sviluppare comportamenti coerenti con l’approccio di leadership. Questi corsi, progettati in partnership con primarie università, si focalizzano sullo sviluppo delle soft skill in linea con il modello di Leadership. L’idea è di far maturare a tutti la consapevolezza che la fase di studio ed apprendimento non termina mai, ma sia necessario mettere costantemente in discussione il lavoro e le competenze per sé stessi e per l’organizzazione.

Ci siamo spesso interrogati su quale potesse essere l’aggettivo che rappresentava al meglio questo percorso e il modello di leadership che vogliamo applicare. Anche attraverso il confronto con l’Amministratore Delegato, quello che ci è sembrato rappresentare meglio questo tentativo è la “flow leadership”.  L’idea di “flow” esprime al meglio l’obiettivo che vorremmo tutti i nostri manager interpretassero, cioè la capacità di generare un flusso virtuoso e positivo in cui le persone sono motivate a fare le cose, sono ingaggiate costantemente e soprattutto sono in grado, attraverso la capacità di generare “empowerment”, di attivare l’energia collettiva e portare le persone a bordo in questo flusso virtuoso di motivazione, competenze e apprendimento per generare costante valore individui ed organizzazione.

Probabilmente questa è una nostra libera interpretazione e adattamento del concetto di “Flow”, un’intuizione ci è piaciuta e che abbiamo provato ad interpretare all’interno della nostra organizzazione.

 

Stiamo assistendo a un’ondata trasformativa della leadership, della modalità del lavoro, del sistema di relazioni e di appartenenza. In che modo i luoghi e gli spazi di lavoro incidono su questa trasformazione?

Sicuramente la pandemia lascia un’eredità positiva, nel senso che lavorare da soli, a casa in remoto per gran parte del tempo ha fatto emergere quanto l’interazione tra i colleghi fosse di stimolo non solo per nutrire il senso di appartenenza al team e all’azienda, ma anche per creare il terreno più fertile all’innovazione e alla creatività. Nel periodo di pandemia abbiamo scontato un rallentamento dei lavori che si nutrono di creatività. Non è stata invece penalizzata la produttività perché, probabilmente la produttività è stata favorita da un aumento del tempo dedicato al lavoro e quindi anche in larga misura dall’impegno.

Certamente uno degli aspetti più critici che lo smart working ha messo in evidenza è stato il ruolo dello spazio. Il legame tra innovazione e luoghi si è maggiormente evidenziato attraverso l’assenza di spazi fisici di incontro. Lo spazio quindi assume un significato diverso: non è solo contenitore di persone e di attività, ma diviene modalità di coesione, di integrazione, di creazione e di sviluppo del senso di appartenenza a più livelli e con più significati. Serve allora una maggiore conoscenza del potere della “spazialità” che diventa una leva che muove molti ingranaggi. Molte organizzazioni si sono cimentate nella riprogettazione degli spazi; io credo che immaginare nuovi spazi di lavoro voglia dire immaginare spazi di condivisione e di esperienza di innovazione. Noi stiamo provando a fare progetti pilota su alcune delle nostre sedi partendo da un presupposto importante: per “spazi” intendiamo creare luoghi che siano funzionali al confronto ed all’interazione e non spazi in cui ci sono persone che lavorano da sole.

Abbiamo fatto inoltre degli studi mirati sulla mobilità, cioè su quello che i nostri dipendenti vivono prima dell’ingresso al lavoro e subito dopo l’uscita dai luoghi di lavoro. L’esperienza di fruire la gradevolezza del posto esterno all’ambiente di lavoro costituisce un fattore importante che agisce come camera di compensazione dallo stress.

Oltre a progettare gli spazi interni ed esterni possiamo anche immaginare lo spazio del viaggio come qualcosa che rende l’esperienza positiva, non solo dal punto di vista del comfort ma anche come opportunità di incontro e confronto fra colleghi. Il viaggio ci regala del tempo, che può essere un elemento di arricchimento. 

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