EDITORIALE
Enrico Sassoon
Settembre 2025
Insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio scorso, Donald Trump ha da subito sconvolto il mondo intero con le sue misure dirompenti e unilaterali, in politica interna, negli affari internazionali e in economia. C’è chi lo considera un folle fuori controllo e chi lo ritiene un abile negoziatore che punta a prevalere giocando sulla confusione e l’incertezza. Di fatto, solo alcune delle sue politiche giungono a segno: per esempio, in diversi casi corti federali o locali hanno bocciato le politiche tariffarie basate sui dazi, giudicati del tutto illegali.
Un’area in cui, invece, le visioni trumpiane sembrano procedere senza troppe resistenze è quella relativa alle politiche DEI, ossia di diversity, equità e inclusione. Per abbatterne alcune, specie nelle agenzie pubbliche, si è avvalso per qualche mese del volonteroso ed egotico Elon Musk, per il quale è stato creato un dipartimento prima inesistente, il DOGE. Un acronimo evocativo che sta per Department of Government Efficiency, in ipotesi una struttura governativa incaricata di operare tagli al personale pubblico, ufficialmente per contrastare delle derive DEI, in realtà per ridurre quell’area di spesa pubblica.
Musk è già stato giubilato da Trump, due narcisisti in una stanza non convivono bene, e ha operato solo qualche taglio, perché anche qui le corti federali hanno posto un freno. Quel che va avanti è la revisione delle politiche di diversity e inclusione, nell’amministrazione pubblica e nelle aziende. E il pensiero comune al riguardo è che sia stato proprio Trump a dare la prima spinta.
La realtà è, però, un’altra. Come ricordano Dobbin e Kalev, è già da qualche anno che, in merito alle politiche DEI, le aziende americane e le loro proiezioni nel mondo hanno preso a ridurre il loro impegno. In parte perché si sono verificati squilibri nella loro applicazione, ma in parte perché spesso le misure prese in azienda per affermare una maggiore e più equa diversità hanno semplicemente fallito. Le direttive interne, spesso supportate da corsi di formazione per dirigenti e dipendenti con lo scopo di sensibilizzare al tema, non hanno funzionato. Talvolta, anzi, hanno generato reazioni opposte. Da qui l’allentamento delle politiche DEI che molte aziende hanno messo in atto ben prima che il duetto Trump-Musk si mettesse in azione.
Fine della storia? Assolutamente no. Le aziende, come parte di una società civile più ampia, non sono più quelle di una volta, così come non lo è l’idea di una leadership incontrastata e autoritaria. Anni di politiche e misure tese a rendere i luoghi di lavoro più aperti e inclusivi hanno avuto profondi effetti su come i leader sono tenuti a gestire le organizzazioni e su come i dipendenti sono disposti a interagire in modo più partecipativo e democratico. Specie fuori dagli Stati Uniti, soprattutto in Europa.
L’azienda inclusiva è una realtà in espansione, senza che ci si debba illudere che all’improvviso tutti i capi siano diventati aperti, autorevoli e collaborativi e che le politiche DEI siano universalmente abbracciate, ma senza neppure ignorare che molto è cambiato negli ultimi anni e, probabilmente, in modo irreversibile.
Dobbin e Kalev, peraltro, propongono una visione in evoluzione. Non nascondono affatto che le politiche DEI ufficiali siano in ritirata ma, memori del fallimento di molte di esse, non lo considerano necessariamente un male. La loro visione, decisamente innovativa, è che nella realtà le aziende che non puntano direttamente all’inclusione ma realizzano grandi performance innovative e di crescita creino di fatto un ambiente dove diversità e inclusione prosperano assai meglio che tramite regole codificate, di norma disattese. Come dire che le politiche DEI che escono dalla porta rientrano dalla finestra, e con maggiore efficacia.
Considerato che l’opinione maggioritaria è che le organizzazioni connotate da alta diversità sono più inclusive e generano risultati migliori, sembra che si possa concludere che sia possibile operare in un circolo virtuoso, in cui le buone performance fanno l’azienda più inclusiva la quale, a sua volta, ottiene così risultati migliori.