ECONOMIA & SOCIETÀ
Solo una classe dirigente, pubblica e privata, capace di collaborare e adattarsi con consapevolezza e saggezza potrà gestire con successo l’ingresso nel nuovo ciclo economico e politico
Giuseppe Conte, Salvatore Santangelo
Settembre 2024
Il grande filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset costruisce, nel suo saggio L’uomo e la gente, una riflessione antinduttiva: così come una personalità – in un contesto di costante tensione/conflittualità – si definirebbe progressivamente dall’esterno (la gente) verso l’interno (l’io), la spinta che porta alla nascita di un’Entità statuale andrebbe sempre misurata con le ambizioni dei suoi vicini/avversari e rispetto al contesto internazionale in cui si trova a operare. Chiaramente, Ortega ha in mente la Spagna della Reconquista e della “vocazione imperiale”.
Il nostro filosofo va considerato – assieme a Maria Zambrano con cui condivise l’esperienza dell’esilio – tra i testimoni d’eccezione di quel drammatico conflitto che ormai è percepito da tutti i più importanti storici del ‘900 come la vera apertura della Seconda Guerra Mondiale: la “Guerra Civile Spagnola” che – per dirla con la definizione di Ernst Nolte – ha anticipato appunto la “Guerra Civile Europea”.
Una stagione che – con la sua lacerante eredità – continua a condizionare il dibattito pubblico: non solo in Spagna ma, per restare nella Penisola iberica, in opere come Linea di fuoco di Arturo Pérez-Reverte o Il sovrano delle ombre di Javier Cercas. Proprio questo importante scrittore antifascista, dopo la traslazione della salma del generale Francisco Franco, ha provocatoriamente affermato: “Il problema principale è che il passato non è passato, il passato è una dimensione del presente”.
Quanti, però, hanno questo senso della profondità e del lungo periodo?
E, nel rispondere, dovremmo domandarci se possa definirsi classe dirigente (sia essa politica, imprenditoriale o intellettuale) quella presunta élite il cui sguardo e il cui orizzonte decisionale siano schiacciati sul breve periodo, specie in un momento in cui la dinamica geopolitica, e in particolare geopandemica, sta restituendo centralità allo Stato e al perimetro nazionale.
In questo senso, seppur da due versanti diversi, sia la classe manageriale privata che quella pubblica, risentono di un pesante ritardo culturale. Per il settore privato questo è in gran parte dovuto all’ubriacatura della stagione della globalizzazione (nonostante proprio la lunga storia del Capitalismo, con le sue laceranti crisi periodiche, avrebbe dovuto fungere da efficace vaccino).
Mentre, la burocrazia pubblica è abituata a delegare ai professionisti del solo Corpo diplomatico l’esigenza di coltivare questa particolare sensibilità.
Per fare un esempio, basti pensare a come la dinamica inflazionistica – attivata dal Bazooka di Draghi e successivamente accelerata dalle politiche espansive del recovery post-Covid – sia andata fuori controllo per il rialzo dei costi delle materie prime (conflitti in Ucraina e in Israele) e delle catene logistiche e di approvvigionamento (chiusura del Mar Rosso e tensioni attorno a Taiwan).
Siamo nel pieno di quel fenomeno che oggi si definisce, con un termine di moda, “policrisi”, anche se, a onor del vero, il sulfureo Guillaume Faye (morto nel 2019, tra gli autori più influenti alla base dell’attuale ondata sovranista che dovremmo imparare a conoscere meglio anche da questo punto di vista) nel suo volume L’Archéofuturisme del 1998 aveva già introdotto il concetto di convergenza delle catastrofi: “Nel passato, numerose civiltà sono scomparse, ma erano disastri che interessavano solo determinate aree della Terra e non l’intera umanità. Oggi, per la prima volta nella storia, una civiltà planetaria deve confrontarsi con linee di catastrofi che riguardano l’ecologia, la demografia, l’economia, la religione, l’epidemiologia e la geopolitica”.
Certo, i toni possono lasciare un po’ perplessi ma è comunque la versione “politicamente scorretta” della policrisi.
Detto ciò, è davvero possibile oggi avere una classe dirigente, anche burocratica, non consapevole di questi potenziali dinamiche?
Pochi mesi fa, la prestigiosa società di consulenza McKinsey ha pubblicato un intrigante report dal titolo Geopolitical resilience: The new board imperative, in cui vengono esplorate proprio alcune soluzioni manageriali per affrontare potenziali rischi geopolitici, diventati una priorità strategica per le aziende e le istituzioni pubbliche. Come affrontare la pianificazione degli investimenti a lungo termine in un contesto in rapida evoluzione? Come riescono le aziende e le istituzioni politiche a navigare nel groviglio normativo dei controlli sulle esportazioni, delle sanzioni e dei requisiti di localizzazione dei dati, che spesso si intrecciano e limitano un’impronta globale senza soluzione di continuità? I consulenti di McKinsey si pongono queste domande, aprendo un filone di riflessione che segna un cambio di paradigma rispetto all’epoca della “terra resa piatta” dai poderosi flussi della globalizzazione e dai venti del libero mercato, mostrando la crescente interazione tra il settore privato e la Pubblica amministrazione a causa dei cambiamenti politici ed economici degli ultimissimi anni.
Ma per provare a comprendere e a rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro.
Un rapporto in evoluzione
Negli ultimi quarant’anni, il rapporto tra Stato e mercato ha subito significativi cambiamenti, inserendosi all’interno di un preciso ciclo politico ed economico che potremmo definire come “neo-liberale”, per evidenziare come le politiche di privatizzazione, liberalizzazione, esternalizzazione e consolidamento fiscale abbiano dominato la politica economica occidentale in un contesto di espansione della globalizzazione. Questo ha avuto effetti rilevanti sulle amministrazioni pubbliche, con una riduzione del ruolo e del prestigio di questo settore da un lato, e una crescente ibridazione tra pubblico e privato dall’altro. Tra gli anni ‘80 e ‘90, l’obiettivo principale dell’agenda internazionale, poi riflesso nei programmi nazionali, è stato quello di un governo più efficiente ed efficace, con un’iniezione di “spirito imprenditoriale” anche nel settore pubblico, utilizzando strumenti manageriali e promuovendo il policentrismo istituzionale.
Decenni in cui le idee del New Public Management e lo sviluppo della governance hanno prevalso su ogni altro aspetto dell’organizzazione e della funzione amministrativa. Questa fusione tra pubblico e privato, non sempre realizzata con successo a causa delle persistenti peculiarità culturali dei vari Paesi, ha influenzato anche la formazione dei dirigenti e dei funzionari pubblici.
Negli anni ‘80 è emerso un paradigma globale della Pubblica amministrazione, promosso da realtà internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE (i pilastri del famoso Washington Consensus). Tutto ciò ha influenzato anche le università, che hanno adeguato la loro offerta formativa a questi “suggerimenti”, collaborando per promuovere un comune modello. Nuove materie sono state integrate negli studi politici e amministrativi: management, metodi quantitativi per l’analisi delle politiche pubbliche, analisi costi-benefici, data science, tecniche e strumenti derivanti dallo sviluppo tecnologico.
Le Business School, le School of Government e le scuole di eccellenza della PA in tutto il mondo sono diventate promotrici di nuove conoscenze e competenze richieste al settore pubblico. Tuttavia, come ricordato, proprio l’accentuazione del mercato e dell’approccio manageriale ha sovente ridotto il prestigio e l’autonomia della dirigenza pubblica, relegandola spesso in secondo piano rispetto al settore privato, trasformandola in un surrogato del management aziendale, piuttosto che un’istituzione cardine dello Stato.
Le crisi degli ultimi anni, come quella finanziaria del 2008, la pandemia e le tensioni geopolitiche, hanno invece evidenziato come proprio le tecnocrazie abbiano paradossalmente crescenti difficoltà di fronte a problemi complessi, interconnessi e che richiedono risposte coordinate, capacità di mediazione e rapido adattamento.
È emerso inoltre che la svalutazione dello Stato e del suo stesso prestigio, dei dirigenti e dei funzionari, può aprire la strada a meccanismi di ulteriore delegittimazione con il rischio di ulteriore cronicizzazione delle crisi.
Di fronte a questi cambiamenti è evidente che il “cervello” della PA debba essere ripensato, superando i manuali scritti nel clima ideologico negli anni ‘80 e ‘90.
Il ritorno dell’interventismo pubblico
Oggi, il rapporto tra pubblico e privato si sta ridefinendo radicalmente.
Fino a poco tempo fa, il management delle aziende e i dirigenti della Pubblica amministrazione dovevano concentrarsi solo sull’efficienza dei processi e sull’efficacia dell’esecuzione. Nell’era della globalizzazione e del neo-liberalismo, potevano operare in due mondi separati che raramente si intersecavano e, quando lo facevano, era più per sfruttare opportunità positive che per affrontare rischi ed emergenze. Tuttavia, le tensioni internazionali, la transizione ecologica, il protezionismo e le nuove sfide di sicurezza politica hanno cambiato radicalmente questo paradigma politico-economico, con impatti significativi proprio sulla relazione tra Stato e mercato.
Recentemente, l’interventismo pubblico è tornato sotto diverse forme: le catene di approvvigionamento si sono ridefinite, le fonti energetiche sono state diversificate e nuovi settori tecnologici sono diventati fondamentali per lo sviluppo economico e per la difesa. Il mondo si sta ridefinendo attorno a nuove domande di sicurezza e protezione e quindi le organizzazioni sia pubbliche che private dovranno adattarsi al cambiamento seguendo nuove linee guida, stimoli e analisi.
Come suggerisce lo stesso rapporto targato McKinsey, una nuova era nel rapporto tra Stato e mercato si sta aprendo con nuovi rischi e nuove opportunità.
In questo senso (e considerando la nuova stagione delle riforme che ci apprestiamo a vivere), forse andrebbe ripresa la provocazione lanciata qualche anno fa da Giulio Tremonti attorno al tema dell’Art. 41 della nostra Carta costituzionale (forse uno degli articoli che più risente delle pressione evolutiva del tempo), non tanto nella direzione auspicata dal grande tributarista di un radicale emendamento dello stesso, quanto di un serrato dibattito, più che mai urgente nel tempo della post-globalizzazione, di come effettivamente postulare e interpretare il requisito dell’“Utilità sociale dell’iniziativa economica”, elemento cardine di questo articolato costituzionale.
Una volta centrato questo pilastro, si potrebbe effettivamente passare alla ridefinizione del ruolo della PA, superando quello di sacerdotale custode dell’ortodossia della mera procedura amministrativa e burocratica, per assurgere a quello di Corpo dirigenziale che dovrebbe assicurare la rotta alla nave nazionale nel mare incognito in cui procediamo.
Per una osmosi tra pubblico e privato
In un contesto in cui l’evoluzione del mercato deve essere armonizzata con la ragione di Stato, la cooperazione tra pubblico e privato dovrà quindi cercare di armonizzare i migliori valori di entrambe queste sfere. Guardando al dinamismo e alla flessibilità del mercato, lo Stato dovrà dar vita a nuove linee regolatorie e istituzionali per la sicurezza nazionale, gli investimenti strategici e la formazione del capitale umano.
Le aziende e le realtà istituzionali non potranno più essere considerate solo come alla stregua di un insieme di relazioni contrattuali, ma andranno pensate e gestite come comunità durature capaci di condividere obiettivi e interessi.
Come ha recentemente ricordato il politologo Lorenzo Castellani: “La sfida per politici, dirigenti e manager pubblici è intensa: scrivere regole per proteggere e stimolare, disegnare nuove istituzioni, intervenire selettivamente sul mercato, guidare processi di ricerca e investimento in determinati settori, evitare pratiche clientelari e neo-patrimoniali, scongiurare eccessi dirigisti e centralisti. Queste sfide cambiano le coordinate anche per il management delle aziende private, poiché oggi la sensibilità politica delle aziende è molto più rilevante. Gli affari continuano, ma con un occhio attento allo Stato, sia come legislatore che come protettore e investitore. In un mondo del genere, la specializzazione e la ricerca della produttività non sono sufficienti, poiché ogni dirigente pubblico e privato è chiamato a un’analisi di scenario più profonda, che non riguarda solo costi, benefici e profitti”.
In questa “nuova era” della post-globalizzazione e della sicurezza, è necessaria quindi un’osmosi tra pubblico e privato che rappresenta una novità, così come l’esigenza di dar vita a un coordinamento senza precedenti, tra saperi e competenze, sia all’interno della stessa Istituzione, sia con altre organizzazioni. Solo una classe dirigente, intesa in senso ampio (anche con un’ottica europea), capace di adattarsi con concretezza e saggezza potrà gestire con successo l’ingresso nel nuovo ciclo economico e politico.
Partendo dalle considerazioni iniziali dovremmo allora ricordare come la sfera della “politica” sia sempre necessariamente condizionata da una conoscenza approfondita della storia, della geografia, della filosofia, della sociologia e della psicologia non solo del proprio Paese di appartenenza, ma ugualmente di ogni altra area del mondo e delle relazioni internazionali tra Stati e regioni. Anche perché, se accettiamo la suggestione proposta da Ortega Y Gasset, lo Stato agisce e reagisce all’ambiente che lo circonda; leggere così il processo evolutivo dello scenario internazionale, pone un interrogativo fondamentale: quante di quelle linee di potenziali catastrofi convergenti sono esogene e quante invece emergono proprio come feedback all’evoluzione stessa del contesto geopolitico?
Domande che aiutano ad affinare una “sensibilità” che non si può non detenere perché, proprio la (poli)crisi del mondo globale si sta delineando sempre più attraverso una nuova dinamica: alto vs. basso / centro vs. periferie; il tutto accompagnato da “cambi di paradigma” tecnologici (come quello della AI) che accelerano il “paretiano” ricambio delle élite.
Quindi politici, uomini delle Istituzioni, CEO e manager, avrebbero bisogno di questa sensibilità e consapevolezza, per “orientarsi” in questo mondo plasmato dall’impetuosa crescita economica della Cina, dall’eredità dei neocon, dalle fallimentari guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria, dalle crescenti conflittualità di ordine religioso, dai poderosi flussi migratori, e soprattutto dal collasso delle Istituzioni e delle pratiche multilaterali, dall’internazionalizzazione dei mercati e dalle tempeste finanziarie.
È del tutto evidente come l’interconnessione economica e il numero sempre maggiore di fattori in grado di influenzare gli equilibri internazionali e i governi di molte nazioni determinino situazioni a causa delle quali ogni evento rilevante (tecnologico, politico, finanziario o ambientale) abbia conseguenze pressoché globali.
Proprio nel tempo geopandemico e della ricostruzione affidata al PNRR è urgente raccogliere la sfida di promuovere questa cultura della comprensione globale degli scenari e dei mercati, proponendo un progetto strutturato per aiutare politici e manager a leggere queste dinamiche e le loro implicazioni.
In questo senso, lo Stato è chiamato a svolgere un ruolo che definiremmo più che nuovo, “evoluto”; con la consapevolezza che, come amava ripetere David Foster Wallace: “La turbolenza è la nuova normalità”.
Giuseppe Conte è Direttore Centrale Risorse Umane INPS. Salvatore Santangelo è Dirigente Area Comunicazione Omnicanale e Content Management INPS.