LEADERSHIP

Il fascino sfuggente delle soft skill

Massimo Milletti

Novembre 2023

Nate un po’ timide, sono state a lungo un passo indietro rispetto alle sorelle più forti che per anni hanno goduto di maggiore attenzione e considerazione. Sviluppatesi, poi, sono uscite dal cono d’ombra assumendo una crescente rilevanza, e ora, nella famiglia allargata delle skill utilizzate per delineare il profilo del leader ideale, quelle soft hanno conquistato un riconoscimento probabilmente superiore alle hard.

Impalpabili, difficilmente misurabili, non amano essere catturate dai diagnostici, per mantenere il fascino sfuggente della valutazione soggettiva, in ciò aiutate dal fatto che i frequenti cambiamenti del contesto economico hanno comportato una continua evoluzione delle competenze considerate “core”.

Facendo una rapida carrellata, si è partiti con quelle più basiche: determinazione, problem solving, affidabilità. Per poi allargarsi a: comunicazione, team working, trasparenza. E nelle fasi più critiche di mercato: intraprendenza, resilienza, pensiero laterale. E ora le più gettonate: flessibilità, velocità di risposta, inclusione. Pennellate per dare colore all’identikit del manager ideale che comunque deve aver maturato una solida preparazione universitaria, percorso i tracciati accidentati della carriera in aziende formative sul piano manageriale e conseguito concreti risultati.

Tutto debitamente documentato e riportato con maniacale enfasi nel CV. Sentieri chiari, riconosciuti e legittimati a certificare la solidità delle competenze tecniche, manageriali, gestionali. Mentre loro no, quelle soft, sfuggono alle numeriche, ai fatti inconfutabili. Apparentemente innocue, se da una parte possono essere facilitatrici di imprevedibili carriere, dall’altra costituiscono una delle maggiori cause di licenziamento senza appello, in quanto velenosamente opinabili.

Comportamentali, sociali, attitudinali, comunque le si voglia definire, rappresentano un universo ampio che trasmette innumerevoli sensazioni, spesso scaricate a terra da una semplice stretta di mano. Saper comunicare, mediare, coinvolgere, motivare, condividere, ascoltare, convincere, integrare. È così da sempre. “Le idee migliori sono proprietà di tutti” (Seneca). “Non scoraggiare mai qualcuno che si sta impegnando per fare progressi: non importa quanto lentamente migliori” (Platone). “La verità bisogna dirla solo a chi è disposto a intenderla” (Seneca).

Intangibili, impalpabili, sono continuamente ricercate dalle aziende, anche se il mercato del lavoro mostra segni contraddittori. Chi percorre infatti i rocciosi sentieri delle discipline scientifiche/economiche, rinforza le competenze hard e scala la vetta delle lauree più richieste. Diversamente da chi esce dalle morbide valli delle discipline umanistiche dove ha maturato quelle più soft, ma fatica a trovare un lavoro.

A tal proposito, fa riflettere il significativo incremento dei diplomati americani che scelgono le facoltà umanistiche; è forse un lusso che si possono permettere, visti i loro tassi di disoccupazione. Di segno opposto, la fuga dai licei classici in Italia, paese dove solo con provenienza STEM si può aspirare ad avere un impiego dignitoso. Nel lungo periodo, comunque, un’erosione della cultura umanistica potrebbe rivelarsi pericolosa per le aziende, soprattutto quando il contagio si allarga anche alla funzione del personale, tradizionale “santuario”, per i cui adepti, disseminati nelle varie attività in qualità di business partner, pare sia diventato prioritario capire il mercato più che le persone.

Crescono nei grandi gruppi le iniziative di tutoring interno per aiutare i giovani a non inciampare nelle regole non scritte o interventi di coaching per agire sui casi più critici emersi a valle di processi di assessment. Virtuose iniziative che difficilmente possono compensare un gap strutturale in termini di diffusione delle soft skill, gap che andrebbe affrontato dalle aziende fissando quote di assunzioni di laureati in discipline umanistiche al fine di bilanciare le culture interne e stimolare le varie forme di dialettica costruttiva.

Al contempo, sul piano formativo, le università dovrebbero porsi il tema di realizzare Master in discipline umanistiche che, al pari degli MBA, integrino la formazione di chi ha scelto un indirizzo scientifico/economico. Nel momento in cui si punta sull’intelligenza artificiale, quella sociale va opportunamente sostenuta.

 

Massimo Milletti, Presidente Onorario, Eric Salmon & Partners

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