I 100 ANNI DI HBR
Novembre 2022
La Harvard Business Review pubblicò il suo primo numero 100 anni fa, con la missione di aiutare i leader a mettere in pratica le migliori teorie di management a livello mondiale. Per celebrare il centenario, abbiamo chiesto a otto manager che ricoprono, o hanno ricoperto, la carica di CEO in alcune fra le più importanti aziende a livello mondiale di descrivere le idee che hanno trainato la loro carriera e la loro organizzazione. Sono emersi due temi. Il primo è la necessità, di fronte a mercati che diventano sempre più dinamici, di innovare costantemente e pensare fuori dagli schemi; il secondo è l’importanza di avere uno scopo e una visione che coinvolga tutti i portatori d’interesse. Il nostro intento è di continuare, per ancora molti decenni, ad aiutare i leader a costruire un futuro migliore per clienti, dipendenti, soci e comunità.
Stéphane Bancel
CEO / MODERNA
PIANIFICARE PARTENDO DAL FUTURO
quasi tutti pensano al futuro dell’impresa usando come punto di partenza il presente. Noi esseri umani siamo portati per natura a pensare in modo lineare, ma è un approccio che limita la nostra creatività e inibisce la nostra capacità di realizzare cose che prima erano inimmaginabili.
Proviamo a considerare un’alternativa migliore. Se immaginiamo come sarà la situazione fra cinque o dieci anni e poi “riavvolgiamo il nastro”, quello che è possibile in questo momento smette di rappresentare un vincolo. Possiamo immaginare l’anno 10 da oggi e poi cercare di capire cosa fosse dovuto accadere nell’anno 9, nell’anno 8 e così via perché quella visione diventasse realtà.
Ho usato questo approccio come amministratore delegato fondatore di Moderna nel 2011. Essendo una start-up, non avevamo un passato a cui ancorarci; perciò, ci veniva naturale pensare in grande, immaginando il traguardo a cui avremmo voluto che arrivasse l’azienda di lì a dieci anni e pianificare a ritroso partendo da lì. Ci siamo assicurati che tutti gli stakeholder fossero in linea con la nostra visione e abbiamo dato alle persone il tempo per farsi coinvolgere, intellettualmente ed emotivamente, dal percorso verso i nostri obiettivi.
Nei primi anni, questo modo di pensare ci ha consentito di costruire con successo sistemi robotici per la ricerca preclinica. Il nostro scopo era industrializzare la capacità dell’azienda di produrre RNA messaggeri (mRNA), che insegnano alle cellule umane come fabbricare una proteina che innesca una risposta immunitaria. Abbiamo cominciato pensando a quanti mRNA avremmo dovuto produrre (migliaia) e con quale tasso di avvicendamento (tre anni) per consentire agli scienziati di sperimentare e imparare rapidamente. Poi abbiamo lavorato a ritroso per capire cosa dovesse accadere e quando per arrivare a quello, senza affidarci a modelli o ipotesi precostituite del passato, e abbiamo progettato le piattaforme robotiche in modo da raggiungere gli obiettivi.
Più recentemente, questa tattica ci ha aiutati a prendere in considerazione l’idea di produrre un vaccino mRNA contro il covid-19 in meno di un anno. All’epoca era un’idea folle su una sequenza temporale accelerata, ma ci siamo riusciti, ancora una volta, grazie alla cronologia inversa: abbiamo cominciato con la visione di un vaccino approvato e abbiamo tracciato un percorso a ritroso (mese per mese, in questo caso), dall’autorizzazione da parte delle autorità pubbliche al completamento delle sperimentazioni cliniche, la realizzazione del vaccino e la selezione della sequenza, un processo completo che solitamente richiede anni.
La cronologia inversa può essere un potente strumento gestionale per qualsiasi organizzazione. Incoraggia a ragionare senza vincoli e questo è il modo migliore per far emergere idee importanti e dirompenti, capaci di spingere in avanti gli affari, l’industria e la società. Non è un approccio infallibile, ovviamente. Può incepparsi per una serie di ragioni, per esempio il fatto di non riuscire a unire i vari portatori d’interesse intorno a una visione chiara, o il fatto di creare un piano non sufficientemente dettagliato. L’unico modo per realizzare cose irragionevoli è allineare le persone, dare loro tempo per convincersi del progetto e farlo proprio, e creare un piano d’azione solido.
Una mentalità focalizzata sul futuro continuerà a essere un motore di crescita per Moderna anche nei prossimi decenni. Vogliamo diventare l’azienda di bioscienze di maggior impatto al mondo e far scorrere il film al contrario ci aiuterà a raggiungere il risultato.
Anish Shah
CEO / MAHINDRA
UNA STRATEGIA FONDATA SUL PURPOSE
l’8 novembre 1945, il gruppo Mahindra, nato da appena un mese, pubblicò un’inserzione pubblicitaria sul più venduto quotidiano in lingua inglese dell’India, The Times of India. Non citava nessun prodotto o servizio, ma elencava i principi fondamentali che avrebbero guidato l’azione della nuova società. Evidenziava il ruolo dell’individuo all’interno dell’impresa e sottolineava, in un momento in cui la Seconda guerra mondiale era finita da poco e il movimento per l’indipendenza stava prendendo forza, il ruolo delle grandi imprese nella promozione di una società più coesa. C’era un appello ad agire (per “elevare il tenore di vita delle masse”) e rimarcava che «dobbiamo avere la collaborazione di quelli che ne trarranno più beneficio, la cittadinanza tutta».
Oggi definiremmo una pubblicità del genere una dichiarazione di scopo (purpose). I principi esposti in quell’occasione rappresentano ancora adesso la base degli intenti del gruppo Mahindra, che oggi sintetizziamo in una parola: rise, crescere. Il motto attuale, affinato nel corso di decenni, è: “Stimolare un cambiamento positivo, consentire alle persone di crescere”. È la ragione per cui sono entrato in questa organizzazione e la ragione per cui ci sono rimasto.
Non posso che restare ammirato dalla preveggenza di cui diedero prova i primi dirigenti di Mahindra quando promisero di operare non solo per il successo commerciale, ma anche per il bene più generale della società. Nel 1962 Peter Drucker scrisse sulle pagine di questa rivista “Big Business and the National Purpose” (Le grandi imprese e lo scopo nazionale), invocando più «responsabilità sociale» da parte delle grandi aziende. Sosteneva che una grande azienda non è «una “faccenda privata” che riguarda soltanto i suoi azionisti, i suoi dirigenti e i suoi dipendenti»: è «un patrimonio della comunità, è “pubblica” nelle cose che fa, nei comportamenti che adotta, negli effetti che produce». Altri luminari del management come Jim Collins, Charles Handy e Michael Porter scrissero dopo di lui sul ruolo dell’etica nel management, il passaggio dalla strategia allo scopo, la visione aziendale, la ragion d’essere di un’impresa e il valore condiviso.
In tutto questo tempo, Mahindra si è attenuta saldamente al suo scopo e abbiamo scoperto che questi principi fondatori hanno retto alla prova del tempo e sono riusciti a guidarci attraverso cambiamenti socioeconomici senza precedenti. Ci hanno aiutati a eccellere in una gamma di attività che va dalle automobili all’agricoltura e dalla finanza ai viaggi, ad abbracciare le tecnologie più all’avanguardia e a guidare la transizione verso standard etici e ambientali più alti. Per esempio, abbiamo cominciato a sviluppare e investire nella decarbonizzazione ben prima che spuntassero fuori i fondi ESG e gli investimenti socialmente responsabili. L’adesione ai nostri principi fondatori ha consentito al gruppo Mahindra non solo di restare al passo con i tempi, ma addirittura di precorrerli.
C’è un altro passaggio di quell’inserzione sul Times of India che voglio evidenziare: «Né il colore della pelle, né la fede religiosa né la casta dovrebbero impedire di lavorare in armonia». Perfino negli anni Quaranta i dirigenti di Mahindra sapevano che l’organizzazione, se avesse voluto avere successo ed essere utile alla società, avrebbe dovuto dare la priorità alla diversità e all’inclusione. Viviamo in un mondo disuguale che ci mette gli uni contro gli altri. Le imprese che hanno uno scopo possono creare un mondo più equo. Solo mettendo gli altri nelle condizioni di crescere potremo crescere anche noi.
Roz Brewer
CEO / WALGREENS BOOTS ALLIANCE
DIRIGERE ASCOLTANDO
Saper ascoltare è fondamentale per dirigere e gestire con efficacia, ma è una cosa che bisogna fare con grande convinzione, se si vuole che funzioni.
Nel corso degli anni ho imparato che un ascolto attivo aiuta a individuare problemi da risolvere, possibilità di innovazione, cambiamenti necessari dei processi o delle politiche, nuove idee di prodotto, modi per migliorare il servizio clienti e altro ancora.
Come amministratrice delegata di Walgreens Boots Alliance, e in precedenti incarichi direttivi che ho ricoperto nel settore del commercio al dettaglio, sono sempre andata a vedere di persona i punti vendita, cercando modi per renderli migliori. Imparo dai nostri clienti e dal nostro staff.
Nel 2022 ci sono tantissimi modi per monitorare le opinioni dei consumatori, per esempio attraverso le applicazioni digitali; ma io sono del parere che la cosa migliore sia sempre vedere e avere un riscontro dal vivo, di persona. Quando dialogo direttamente con i dipendenti che lavorano a contatto con i clienti, gli ingranaggi cominciano a mettersi in moto veramente.
Quando mi presento, durante questi tour nei punti vendita, dico chiaramente che sono venuta per ascoltare, non per fare quella che viene a dire col senno di poi come bisognava fare o per cogliere i dipendenti in flagrante. Voglio coinvolgere i nostri lavoratori in una discussione e sentire quello che hanno da dire. Voglio che tutti sappiano che hanno la mia piena attenzione e per dimostrarlo non mi porto dietro nessun dispositivo mobile. Parliamo dei problemi apertamente e poi elaboriamo in tempi rapidi dei piani d’azione correttivi.
Anche dopo che ho analizzato i dati per comprendere un problema e ho lavorato con il mio team per trovare una soluzione da raccomandare, mi incontro con i direttori dei punti vendita per sottoporre loro la proposta: «È giusta questa soluzione? Potete approvarla o affossarla, ma ditemi come si concilia con la vostra esperienza nel punto vendita. Io vi ascolto».
Incoraggio anche gli altri dirigenti del mio team a visitare i punti vendita. A volte tornano e condividono le loro impressioni, segnalando una politica o un processo che ormai sono superati e dicendo: «Non riesco a credere che facessimo una cosa del genere. Ma davvero pensavamo che potesse funzionare?». Di solito si tratta di una decisione che avevamo preso senza immaginare che avrebbe ostacolato l’esperienza del cliente. Poi discutiamo il problema, lo dipaniamo e troviamo una soluzione tutti insieme.
Dopo aver visitato un punto vendita, spesso invio una nota ai membri del team che ho incontrato. Li ringrazio per aver condiviso il loro punto di vista e spiego esattamente come e quando apporteremo dei cambiamenti sulla scorta delle loro osservazioni. Così, quando vedono che il cambiamento arriva, sanno che la loro voce conta e che l’azienda attribuisce grande importanza alle innovazioni e alle soluzioni proposte da chi sta a contatto con il cliente.
Come gli studiosi di management scrivono sulla Harvard Business Review da almeno un decennio, la leadership è una conversazione. L’ascolto attivo può essere uno degli strumenti più potenti.
Nicolas Hieronimus
CEO / L’ORÉAL
VISIONE GLOBALE, ESECUZIONE LOCALE
una delle sfide più grandi per qualsiasi multinazionale è conservare importanza a livello locale promuovendo al tempo stesso economie di scala ed espandendosi il più possibile a livello globale. In un articolo del 1983 sulla Harvard Business Review, il professore di marketing della Harvard Business School Theodore Levitt sosteneva l’importanza di prodotti standardizzati a livello mondiale. Il suo contemporaneo, il sociologo Roland Robertson, affermava sulla Harvard Business Review e in altre sedi che la soluzione era invece la “glocalizzazione”, cioè ritagliare prodotti, servizi e metodi commerciali globali su misura delle leggi, delle consuetudini e delle preferenze locali.
In L’Oréal abbiamo affrontato questo dilemma con un approccio che chiamiamo “universalizzazione”: una strategia guidata a livello centrale che viene portata in vita attraverso l’esecuzione a livello locale. Concretamente, questo significa che i nostri team nei singoli mercati hanno un elevato grado di autonomia, ma operano all’interno di un quadro generale chiaro, allineato a livello globale. Per supportare tutto questo, abbiamo una rete mondiale di siti produttivi, centri di ricerca e innovazione e snodi di marketing design per sviluppare, fabbricare e distribuire prodotti in contesti geografici diversi.
Fondata a Parigi nel 1909, L’Oréal oggi conta un totale di 85.400 persone che lavorano in 68 Paesi e una presenza in più di 150 mercati. Siamo stati capaci di creare una flotta di marchi autenticamente globali, da Maybelline a Lancôme e Kérastase, offrendo al tempo stesso prodotti su misura per venire incontro alle aspirazioni di bellezza della clientela in ogni parte del mondo.
Per esempio, L’Oréal Paris, il marchio più importante del mondo nel settore della bellezza, offre una gamma completa di prodotti altamente avanzati in cinque categorie: trucco, prodotti per la pelle, prodotti per i capelli, tinte per capelli e prodotti per il pubblico maschile. Al tempo stesso, i nostri team sul campo ci consentono di individuare rapidamente le tendenze e le tematiche emergenti nei mercati locali, come le preoccupazioni della clientela per i punti neri nel Sudest asiatico e in America Latina o la crescita esponenziale degli hairstylist in Nordamerica. Ci aiutano anche a scovare opportunità promettenti per supportare iniziative locali. I nostri team della divisione cosmetica attiva lavorano intensamente per rafforzare le partnership con professionisti e influencer della salute in diverse aree geografiche.
Il nostro approccio stimola innovazioni a livello locale che poi possiamo applicare in altre aree del pianeta. È successo così, per esempio, con la gamma Bright Complete di Garnier, che include il popolare siero con vitamina C: originariamente era stato creato per la clientela del Sudest asiatico e ora ha grande successo in Messico, Francia e molti altri Paesi.
La collaborazione paritaria che abbiamo fra team globali e team locali incoraggia e ricompensa lo spirito di iniziativa, perché chiunque, ovunque, può fare realmente la differenza. Durante la mia carriera ho avuto la fortuna di lavorare nelle nostre filiali in Messico e nel Regno Unito e di vedere con i miei occhi come un’idea che parte dal basso possa avere un impatto su tutta l’azienda e come l’adattamento di idee, risorse e orientamenti provenienti dall’alto possa dare più efficacia all’azione a livello locale.
L’universalizzazione è alla base anche dei nostri grandi progetti di trasformazione, che abbinano visione globale e implementazione locale. Prendete il nostro programma di sostenibilità “L’Oréal per il futuro”. Lavoriamo per lo stesso scopo, proteggere la bellezza del pianeta in tutti i nostri mercati, ma le azioni specifiche che intraprendiamo possono variare a seconda del contesto, delle normative e delle aspettative locali. Attraverso i nostri fondi di impact investing, L’Oréal supporta la rigenerazione di ecosistemi degradati e la ricostruzione della biodiversità, per esempio attraverso iniziative locali per ripristinare le foreste di mangrovie in Kenya, rivitalizzare 50.000 ettari di terreni nel Regno Unito e facilitare un’agricoltura a basse emissioni in Francia.
La fiducia e la collaborazione stretta fra i nostri team globali e quelli locali serve anche come guida nelle situazioni di crisi. Per esempio, durante la recente pandemia, abbiamo fatto affidamento sui nostri team sul campo per individuare alterazioni della catena logistica globale e cambiamenti repentini delle condizioni di mercato, e abbiamo lavorato insieme per affrontarli. Solo un esempio: linee guida e materiali elaborati a livello globale hanno consentito ai nostri team nei singoli mercati di lavorare insieme alle loro autorità per applicare i protocolli di igienizzazione rafforzati necessari per garantire la riapertura in sicurezza dei parrucchieri.
Con il mondo che diventa sempre più volatile, incerto, caotico e ambiguo, per non parlare della frammentazione, rimango convinto che il nostro approccio ci darà l’adattabilità necessaria per continuare ad avere successo. Che la chiamiate glocalizzazione o universalizzazione, può portare benefici a qualsiasi organizzazione che punti a servire tanti mercati diversi.
Joey Wat
CEO / YUM CHINA
INNOVAZIONE CONTINUA
passando da un incarico all’altro nella mia carriera, culminata con la carica che rivesto attualmente di amministratrice delegata della più grande società di ristorazione cinese, l’innovazione è emersa come l’aspetto probabilmente più importante della mia filosofia di leadership.
Le preferenze dei clienti sono in costante evoluzione, mentre le nuove tecnologie trasformano il modo in cui interagiamo. Ho sempre ritenuto che le società che sopravvivono e prosperano in mercati dinamici e competitivi non siano necessariamente le più forti o le più brillanti: sono quelle che riescono a rispondere velocemente e ad adattarsi efficacemente al mutamento delle circostanze. Per fare questo, c’è bisogno di empatia verso quelli che serviamo, resilienza e creatività, lezioni che ho imparato crescendo in una famiglia relativamente umile e che cerco di trasmettere ai team che gestisco.
Quando le cose vanno bene, molte aziende smettono di innovare perché non sentono più l’urgenza e, come ha dimostrato il compianto professore della Harvard Business School Clayton Christensen, in questo modo prestano il fianco all’azione dirompente delle start-up. In tempi di crisi, l’innovazione è ancora più importante, come ha dimostrato la pandemia. Nel mio settore, le aziende che hanno adottato rapidamente nuove misure sanitarie e di sicurezza per i dipendenti per poter tenere aperti i ristoranti e hanno progettato nuove soluzioni, come le ordinazioni e il ritiro senza contatto fisico, sono quelle che sono uscite dalla crisi più forti.
Per dare impulso alla crescita dell’organizzazione sia nei periodi positivi che nelle fasi di difficoltà, bisogna costruire una cultura dell’innovazione. Alla Yum China, la nostra visione è essere pionieri dell’innovazione nell’industria della ristorazione, dal modus operandi della nostra catena logistica alla procedura con cui vengono aromatizzati e preparati i nostri piatti, fino all’esperienza di ordinazione e consumazione che offriamo ai nostri clienti. Seguendo questa visione, siamo riusciti a espanderci al ritmo di più di mille ristoranti l’anno senza penalizzare i tempi di ritorno degli investimenti. Nuovi formati per i nostri ristoranti ci aiutano a venire incontro a esigenze commerciali differenti, come i servizi di consegna a domicilio e asporto, oltre a estendere la nostra presenza nelle città meno importanti. Lanciamo in media ogni anno, fra i nostri vari marchi, più di 500 prodotti nuovi o migliorati (e spesso localizzati) e questo ci aiuta a diversificare penetrando in categorie contigue, per promuovere ancora di più la crescita. I nostri dipendenti a contatto con il pubblico, consapevoli della nostra volontà di crescere rapidamente come organizzazione, lavorare in modo più snello e creare più valore per i clienti, ci forniscono abitualmente suggerimenti per nuovi piatti da aggiungere ai menù o miglioramenti del servizio. Alla Yum China, assumersi rischi ragionevoli è una cosa accettata e i dipendenti sono incoraggiati a pensare fuori dagli schemi. Il nostro Shanghai Innovation Center è il luogo dove sperimentiamo e perfezioniamo idee che vengono sia dal basso che dall’alto: dal modello d’impresa fino alla digitalizzazione e alla qualità delle patatine fritte, ogni aspetto della nostra attività operativa può sempre essere migliorato.
Un altro elemento chiave della nostra cultura dell’innovazione è garantire la rapidità del processo decisionale senza perdere in qualità. Ci siamo impegnati molto per ridurre gli strati di burocrazia che possono rallentare il processo e la velocità con cui reagiamo ai cambiamenti delle preferenze dei clienti. Inoltre, ci focalizziamo sulla tecnologia, aggiornando i nostri sistemi e introducendo nuovi strumenti, come degli smart watch che consentono ai direttori dei nostri ristoranti di monitorare in tempo reale i parametri operativi. L’innovazione è la linfa vitale della nostra attività, com’è o dovrebbe essere per ogni organizzazione che punti ad avere successo.
La Yum China è attiva da 35 anni ed è cresciuta insieme alle nuove generazioni di clienti, tutto grazie al fatto che siamo instancabilmente focalizzati sull’innovazione continua. In futuro continueremo a esplorare nuovi modi per potenziare l’esperienza dei clienti e dei dipendenti, produrre valore e trainare la crescita. Le aziende di successo non riposano mai sugli allori.
Mo Ibrahim
EX CEO / CELTEL
CAPITALISMO INCLUSIVO
Sono nato in Sudan da genitori sudanesi e, anche se vivo in Gran Bretagna dai tempi dell’università, resto fedele a molti aspetti della cultura africana. Un principio fondamentale che ho imparato dai miei antenati è l’importanza di preoccuparsi degli altri. Nelle mie attività imprenditoriali, questo impegno si è tradotto in quello che chiamo capitalismo inclusivo. (Altri potrebbero usare il termine stakeholder capitalism.) Come imprenditore e come amministratore delegato, il mio obiettivo è fare in modo che tutti quelli che mi aiutano a raggiungere il successo – dipendenti, investitori, clienti, membri della comunità – possano condividerne i frutti.
Nel 1989 ho fondato la MSI, una società di consulenza che assiste le compagnie di telecomunicazioni nella progettazione del software e della rete, usando 50.000 dollari miei. Quando l’abbiamo venduta, 11 anni dopo, per 900 milioni di dollari, ero orgoglioso del fatto che il 33% della società fosse in mano ai dipendenti. A quell’epoca l’azionariato dei dipendenti era poco diffuso nel Regno Unito, ma ogni anno, a dicembre, io offrivo ai nostri lavoratori azioni a prezzi molto inferiori a quelli di mercato. (Ci fu un anno in cui il prezzo per i dipendenti era di 16 pence per azione, anche se un investitore si era appena offerto di pagare 15 sterline per azione!) Essendo l’unico proprietario, potevo prendere decisioni del genere e l’ho fatto senza esitazioni. Era giusto che i nostri dipendenti potessero godere dei frutti del valore che creavamo collettivamente. E, in un’epoca in cui c’era grande richiesta di talenti tecnici, si trattava di una strategia eccellente per acquisire e trattenere i talenti. La MSI aveva ingegneri fra i migliori al mondo e insieme abbiamo progettato metà delle reti mobili in Europa e molte in Asia. Io dicevo spesso al gruppo: «È grazie a voi che abbiamo ottenuto questo contratto e lo abbiamo portato a termine. Se la società sta guadagnando soldi, tutti dobbiamo guadagnare soldi».
La mia successiva avventura imprenditoriale fu quella per cui sono più conosciuto: la Celtel, che ha dato all’Africa un servizio di telefonia cellulare. Fin dall’inizio, nel 1998, sapevo che si trattava di una proposta vincente. Con la sua enorme estensione geografica e un’offerta ristrettissima di servizi di telefonia fissa, una rete di telecomunicazioni era un bisogno drammaticamente sentito nel continente. Costruendone una, avremmo aiutato milioni di africani a rimanere in contatto con le persone care e a gestire meglio le loro vite e le loro attività economiche, il tutto realizzando buoni profitti. Il problema era che nessun operatore del settore e nessuna banca voleva scommettere su una società tecnologica in Africa.
Questa volta non potevo finanziare da solo il progetto: volevamo costruire reti in decine di Paesi ed è una cosa costosissima. Perciò mi assicurai finanziamenti da vari investitori, sette tornate in sei anni. Quegli azionisti divennero partner fondamentali: chiunque detenesse una quota superiore al 2% otteneva un posto nel consiglio di amministrazione e applicavamo gli standard di governance più rigorosi. Le aziende operative della Celtel (alla fine siamo arrivati ad averne una dozzina, una per ogni Paese in cui abbiamo lanciato la nostra attività) non pagavano mai tangenti. Per garantire l’onestà di tutti, qualsiasi spesa superiore ai 30.000 dollari doveva essere approvata all’unanimità dal CdA e, dal momento che la nostra attività cresceva in modo estremamente rapido (il 100% da un anno all’altro), questo significava che dovevamo essere reperibili per dare la nostra approvazione praticamente 24 ore su 24 e 7 giorni a settimana. Ci siamo rifiutati anche di fare quei giochetti di elusione fiscale che rimangono comuni in Africa, con il risultato che in 9 Paesi siamo diventati i maggiori contribuenti, finanziando felicemente strade, scuole e altre infrastrutture e servizi fondamentali.
Con il capitale distribuito fra tanti investitori, non potevo dare azioni a prezzo scontato ai dipendenti come avevo fatto alla MSI, ma il nostro CdA si impegnò a garantire per intero ai dipendenti e ai loro famigliari benefit assicurativi e sanitari (una misura importante in un momento in cui l’AIDS stava dilagando) e accordò loro grossi pacchetti di stock options. Nel momento in cui vendemmo l’azienda per 3,4 miliardi di dollari, nel 2006, il 13% delle azioni era nelle mani dei lavoratori. Parafrasando il professore della Harvard Business School Felda Hardymon, ex consigliere d’ amministrazione della Celtel, a coinvolgere i dipendenti nella proprietà dell’impresa non ci si rimette mai.
Sia alla MSI che alla Celtel ci siamo concentrati sul fornire un servizio di cui i consumatori avevano bisogno e che avrebbe rafforzato le comunità, dalla Spagna a Singapore e fino al mio Sudan. Abbiamo ricompensato riccamente i nostri dipendenti e abbiamo guadagnato in cambio la loro fedeltà a tutto campo. Inoltre, abbiamo collaborato con i nostri dirigenti e i nostri azionisti per produrre risultati finanziari straordinari e avere un impatto positivo sulle persone dentro e fuori la nostra azienda. All’epoca, non era ancora diventato un approccio alla moda. Ma era la cosa giusta da fare.
Oggi guido la fondazione Mo Ibrahim, che punta a espandere la buona governance e una leadership fondata sui principi in Africa. La mia speranza è che sempre più aziende nel continente – e in tutto il mondo – abbraccino i principi del capitalismo inclusivo.
Ignacio Galán
CEO E PRESIDENTE / IBERDROLA
TRASPARENTI E SOSTENIBILI
Nel 2001, quando entrai in Iberdrola come amministratore delegato, i rapporti sulla sostenibilità non erano in cima alla lista delle priorità per il mondo delle imprese, e di certo non per le aziende del settore energetico.
Ci sarebbero voluti ancora tre anni prima che venisse coniato, nel 2004, l’acronimo ESG (che sta per environment, social e governance e designa gli obiettivi e i parametri in materia di ambiente, impatto sociale e governance), in un rapporto del Patto mondiale delle Nazioni Unite, della Società finanziaria internazionale e del Governo svizzero, dal titolo Who Cares Wins (Chi si cura degli altri vince).
Nei 18 anni trascorsi da allora, questo termine è diventato un po’ un luogo comune nel mondo delle imprese, con dirigenti e imprenditori che promettono che le loro organizzazioni inquineranno meno, daranno un maggior contributo alle comunità in cui operano e condurranno la loro attività secondo principi etici. Ma, come recita il vecchio adagio del mondo del management, si può gestire solo quello che si misura. È per questo che abbiamo deciso molto presto di impegnarci per diventare non solo il principale fornitore di energia pulita in Europa e in altri mercati (siamo attivi, per esempio, negli Stati Uniti, in Messico, in Australia e in Giappone), ma anche di pubblicare regolarmente informazioni sui nostri progressi verso questo obiettivo, anche tramite la pubblicazione di un rapporto annuale dettagliato sulla nostra performance ambientale.
Nell’introduzione alla prima edizione del rapporto, nel 2002, dissi chiaramente che la nostra azienda era impegnata in un percorso rivoluzionario. A quell’epoca i combustibili fossili la facevano da padroni e gli organismi di regolamentazione, i Governi e gli investitori in generale avevano poco interesse a spostarsi su alternative come l’eolico e il solare. Ma noi eravamo consapevoli che le rinnovabili, con l’ausilio delle reti e dei sistemi di stoccaggio dell’energia, erano il modo migliore per ridurre le emissioni e garantire una soluzione energetica più sicura, autosufficiente, competitiva ed ecologica.
Volevo galvanizzare i nostri dipendenti, trasformare la cultura aziendale e dimostrare a investitori e analisti che facevamo sul serio quando dicevamo di voler essere sostenibili senza nuocere ai profitti.
Al momento di pubblicare la relazione annuale ci sottoponevamo a un livello di esame aggiuntivo che nessuno ci chiedeva, né i regolatori né i portatori d’interesse. Ma un altro beneficio di una rendicontazione trasparente e sistematica è che aiuta a capire dove sono i problemi e le opportunità e a trovare modi per correggere i primi o sfruttare le seconde.
La nostra dedizione ai principi e alla rendicontazione “ESG+F” (dove la F sta per finanza) ha continuato a evolversi e qualche anno dopo abbiamo creato il concetto di “dividendo sociale” per riflettere il nostro impegno a creare valore per tutti i portatori d’interesse. Le nostre regole interne ci impongono di produrre un dividendo sociale e ogni anno diamo conto di quello che abbiamo fatto al riguardo, nello stesso modo in cui elargiamo dividendi finanziari.
Gli sforzi che abbiamo messo in campo per vent’anni sono stati ricompensati. Ormai gli indici ESG indipendenti ci mettono quasi sempre nelle prime posizioni e all’assemblea generale annuale del 2022 i nostri azionisti hanno approvato ogni punto in agenda con una media del 98%, ma hanno espresso un sostegno ancora più schiacciante – il 99,9% – per la governance e la gestione della sostenibilità.
Oggi gli investitori, i regolatori e l’opinione pubblica si aspettano che la performance ESG venga rendicontata accuratamente e sia strettamente legata alla strategia aziendale. Non si tratta più semplicemente di adeguarsi alle norme. Si tratta di partecipare attivamente alla trasformazione che le comunità pretendono dalle organizzazioni private e pubbliche. La rendicontazione è uno strumento fondamentale per gestire efficacemente un’azienda; ed è assolutamente essenziale nella lotta contro i cambiamenti climatici.
Indra Nooyi
EX CEO / PEPSICO
PERFORMANCE CON PURPOSE
Quando venni nominata amministratrice delegata, nel 2006, ero determinata a gestire la PepsiCo in modo che potesse produrre buoni risultati nell’immediato e prosperare nel lungo termine, anche a distanza di anni dalla fine del mio mandato. La società era già in buona salute, ma il mio sogno era creare una multinazionale che diventasse un simbolo del XXI secolo, orgogliosa delle sue radici ma globale, agile e responsabile in un’epoca di grandi cambiamenti.
Per sei mesi o più ho letto tutto quello che potevo sulle grandi tendenze della società che influenzano il mondo degli affari, il settore dei prodotti di consumo e in particolare l’industria alimentare. Ho monitorato di persona il mercato, osservando i clienti in azione. Ho studiato attentamente i dati di acquisto, il feedback dei dipendenti e il rumore esterno nel nostro settore e nelle nostre categorie. Ho anche scavato a fondo nei compiti e nelle responsabilità delle aziende quotate in borsa. Da tutto questo è emersa una visione per la PepsiCo che per una dozzina d’anni è stata il nostro faro. L’ho chiamata “Performance with Purpose”, (performance con uno scopo, NdR).
L’obiettivo era produrre ottimi ritorni finanziari, come abbiamo sempre fatto, ma con in più tre imperativi chiari: nutrire l’umanità e le comunità in cui viviamo, ricostituire l’ambiente e valorizzare i nostri dipendenti. Abbiamo cambiato il modo di fare utili dell’azienda legando il nostro successo commerciale a questi obiettivi, con l’aggiunta di prodotti più nutrienti al nostro portafoglio, la riduzione del consumo idrico e dei rifiuti di plastica e gli sforzi per attirare e trattenere i talenti migliori.
Lo scopo che mi motivava era fare il possibile per ridurre i rischi futuri per la PepsiCo, nell’interesse di tutti – azionisti, dipendenti, comunità – cercando di capire come sarebbe cambiato il mondo nei decenni a venire. E ha funzionato: nei 12 anni in cui ho rivestito la carica di amministratrice delegata, il rendimento totale per gli azionisti è stato del 149%, i dividendi sono cresciuti del 10% l’anno e i ricavi netti sono balzati in avanti dell’80%. Abbiamo ridotto il tenore di sale, grassi e zuccheri nelle bibite e nelle patatine, abbiamo aggiunto marchi e prodotti più salutari e abbiamo abbassato del 40% la quantità di acqua necessaria per produrre una bottiglia di Pepsi. Abbiamo costruito un reparto ricerca e sviluppo straordinario, per continuare a innovare. I nostri studi di progettazione hanno ottenuto molti riconoscimenti. La nostra fucina di talenti è talmente efficiente che in nove occasioni è successo che un alto dirigente abbia lasciato la PepsiCo per andare a fare l’amministratore delegato in un’altra azienda, un successo dolceamaro di cui vado orgogliosa.
Sono convinta che i leader debbano dedicarsi all’arduo compito di ragionare a ritroso partendo dal futuro, anche quando le cose vanno bene. E ora abbiamo un quadro di riferimento che ci aiuta: la costante evoluzione dei parametri ESG, che servono, in sostanza, a ridurre i rischi per aziende e mercati. Costringono chiunque voglia restare protagonista nel lungo periodo a discutere verità scomode. Se i parametri sono scelti con cura, l’ESG non va contro agli interessi degli investitori. Cosa importante, ridurre i rischi per l’azienda crea valore per l’azionista.
La “performance con uno scopo” non è stata facile da implementare e ho avuto dei momenti difficili, per esempio quando un gestore patrimoniale esclamò: «Ma chi si crede di essere? Madre Teresa?». Ma lo scetticismo è venuto pian piano meno quando ha preso piede una missione collettiva che include molto altro oltre ai risultati finanziari. Era la mia speranza fin dal principio.