LEADERSHIP
Massimo Milletti
Novembre 2022
Masanori Kuwata tiene un profilo basso, come si confà al suo ruolo e in linea con le politiche del gruppo nel quale lavora. Ricopre una posizione rilevante, vicino ai vertici. Cinquantadue anni, EVP del gruppo Toyota, è stato inserito nella rosa dei candidati alla successione del CEO di gruppo, assieme a Masahiko Maeda, Chief Technology Officer, e a Kenta Kon, Chief Officer of Accounting. Niente di particolare, se non che il job title di Masanori è quello di Chief Officer of General Administration & Human Resources. Caso raro. Rarissimo poi, se alla fine diventasse lui il CEO del gruppo.
Passato
La gestione delle risorse umane è un’attività che negli anni ha conosciuto una continua evoluzione. Così come il ruolo del HRD. Progressivi cambiamenti sviluppatisi comunque in modo meno omogeneo rispetto ad altre funzioni, in quanto legati alle culture aziendali, alle strutture organizzative e alle individuali visioni che i CEO hanno degli ambiti di azione della funzione. E all’interpretazione che i diretti responsabili danno del proprio ruolo. Asse portante della reputazione aziendale, le modalità con le quali vengono gestite le risorse umane differenziano le società, in modo un po’ semplicistico, tra quelle più avanzate e quelle meno avanzate in tale materia. Innestando di fatto una sana competitività all’interno della famiglia professionale degli HR, in termini di iniziative e di progetti innovativi, frutti di una stagione compresa tra la crisi finanziaria del ’08 e il Covid-19, caratterizzata da una profonda apatia economica e dalla scarsità di fattori rilevanti.
Di fatto la mattanza del 2008-09 segna l’ultimo atto di una generazione di capi del personale di solida cultura sindacale, abituati a fare anche i lavori più sgradevoli. Aprendo la strada a profili più soft di sviluppo e alla massiccia presenza femminile. Dieci anni che vedono il fiorire di innumerevoli e lodevoli iniziative di welfare aziendale. Periodo durante il quale lo scouting, l‘acquisition, il development e il management dei talenti assumono aspetti quasi maniacali nella gestione delle risorse. Con l’inclusion e la diversity che diventano vessilli di progresso. E con il proliferare nei grandi gruppi di kpi che misurano la quota delle donne nelle assunzioni, la percentuale femminile nei ruoli manageriali e in quelli executive. Facendo sorgere spontaneo il dubbio che, in caso di ristrutturazione, la difesa del kpi possa non essere favorevole alla dirigenza maschile.
Scatta l’orgoglio tra gli HRD di essere più innovativi rispetto ai colleghi delle altre realtà e di concorrere per il massimo riconoscimento: quello dell’apripista. Come api impollinatrici, i consulenti ronzano tra le varie aziende fertilizzando il mercato e diffondendo le novità. Con un sindacato assopito, con obiettivi di produttività facilmente raggiungibili attraverso l’inserimento di giovani sottocosto, gli HRD trovano stimolo e motivazione nel posizionare la propria azienda tra quelle più avanzate in termini di politiche del personale. Passaporto per fare il relatore ai convegni ed essere oggetto di articoli. Una certa vanità di apparire, quasi a riscattare i tempi oscuri di un tramontato sindacalismo muscoloso. Il tutto intellettualmente stimolante, gratificante sul piano dell’immagine. Ma non abbastanza appagante per quegli HRD che ambiscono a pesare, ad avere un ruolo di incisiva operatività, di centralità decisionale.
In loro soccorso arriva la digitalizzazione, alla quale viene da subito abbinato il concetto di trasformazione, tanto per far capire che non si tratta di una tematica puramente tecnica, ma di un processo per poter mettere mano all’organizzazione, alle procedure, ai sistemi, rivedendo ruoli, comportamenti, competenze. Un progetto senza inizio né fine, perché il digitale appare da subito come un infinito spazio dove viaggiano veloci i nativi e galleggiano i tardivi, trascinati da enormi potenzialità di cambiamento. E, a fronte di un’economia che non cresce, ecco l’occasione per semplificare, ridurre i livelli gerarchici, smagrire le organizzazioni con una dieta che promette maggiore agilità. Per calmare lo stress vengono concesse le prime giornate di smart working. Periodo impegnativo per gli HRD che, senza saperlo, preparano le proprie truppe ad affrontare l’imprevedibile attacco della pandemia.
Presente
9 marzo 2020: tutti nei rifugi. Si svuotano le strade, si chiudono i negozi, ci si asserraglia in casa. Staccata la spina dalla vita reale, ci si trova di colpo sospesi in un paralizzante nulla di fronte a uno sconosciuto nemico. Ma le aziende no, quelle non possono fermarsi. E per farlo, mettono la sicurezza dei propri dipendenti al centro delle priorità. Rivedendo totalmente l’organizzazione del lavoro, facendo saltare le tradizionali procedure, creando nuovi processi, agendo con la massima flessibilità nell’ambito di chiari protocolli finalizzati a garantire l’integrità fisica delle proprie persone. E sono loro di fatto, gli HRD, che nelle war room virtuali cogestiscono la crisi affiancando i capi azienda. Un salto importante per chi, in coscienza, guardandosi la mattina allo specchio, non può che ripetersi: “e qui si parrà la tua nobilitate”.
Di colpo i dipendenti diventano persone e la loro gestione diventa responsabile, nel senso più profondo del termine. Come non mai. Si scarta il superfluo, emergono i valori veri dei rapporti interpersonali. Diretti, individuali, umani. Perché una vita vale una vita e solo così si combatte un nemico che colpisce indiscriminatamente. Momento epocale di condivisione che annulla le gerarchie. Le aziende lottano, tengono, anzi assumono. Le interviste si fanno a video, il passaggio tra un impiego e l’altro avviene con il semplice scambio di portatili. In azienda si transita giusto per la visita medica. Le riunioni si svolgono da remoto. Puntualità e presenza garantiti. Attenzione e ascolto, molto meno. Si ritiene che il lavoro da casa garantisca una maggiore produttività. Magia del cottimo digitale.
Ruolo complesso, quello degli HRD, con le emergenze da affrontare, una nuova organizzazione del lavoro da implementare, protocolli da aggiornare, persone da rassicurare. Tamponare e contestualmente riflettere su come sarà l’organizzazione del dopo. Ma questo non lo sa nessuno. Né loro, né i loro capi e tanto meno i dipendenti. Pervade l’inquietudine generata dall’incertezza. Che crea voglia di cambiamenti. Frutto di riflessioni da lockdown maturate nello stretto spazio di casa, rimbalzate da una parete all’altra, come una eco ossessiva senza sfogo né contraddittorio.
Pungolati dai vaccini, lentamente si esce dai rifugi domestici. Il lavoro a distanza, da ammortizzatore delle paure, diventa per tanti l’asse portante di un nuovo stile di vita. Da conciliare con le esigenze aziendali. Viste ora come secondarie.
Assorbiti dalle emergenze operative, privati dei sensori interni legati alla frequentazione fisica dei colleghi, le strutture del personale faticano a sintonizzarsi sui cambiamenti in corso nei singoli individui. Le indagini di clima, le survey sull’engagement forniscono dati generici e talvolta tardivi. Il malessere, l’inquietudine viaggiano spediti e richiedono risposte veloci. Diverse rispetto al passato e, soprattutto, individuali. Pandemia, guerra, inflazione, cocktail ad altissimo tasso d’incertezza. Che stimola nuovi fenomeni.
Parte dagli USA e per sottolineare che si tratta di qualcosa di veramente rilevante, le viene affibbiato l’appellativo di great. E quindi, dopo la storica depression e la più recente recession, arriva la Great Resignation. Si diffonde silenziosa, a tutti i livelli, generata da motivazioni differenziate e, come tale, difficilmente prevedibile. Pervade anche i gruppi dai brand più blasonati, quelli che fanno curriculum, che hanno politiche di gestione del personale avanzate, e che pertanto si ritenevano immuni da un fenomeno nel quale la componente emotiva prevale su quella razionale. Si corre ai ripari con le azioni di retention. La parola d’ordine delle squadre di recupero dei dimissionari è di avere un approccio “bold”. Sul tavolo dei negoziati, oltre alle classiche leve del vil denaro e dell’inquadramento, ora pesano i giorni di smart working. Triste mercato che svaluta gli impegni presi e il senso di appartenenza. Sicuramente poco educativo per le figure più giovani, nelle quali prevale l’ottimizzazione dell’oggi anche a discapito della reputazione. Comunque, non sempre facile criticarli.
Ma rincorrere non basta, e allora ci si attiva sulla prevention, innestando patti di stabilità nei riguardi delle risorse ritenute più rilevanti per l’azienda. E loro sono sempre lì, al centro delle varie iniziative, gli inossidabili HRD, guardiani dei valori e sciamani dei processi trasformativi. Garanti dell’etica, in bilico tra le pulsioni del vertice e le regole della famiglia professionale. Ruolo evoluto negli anni, arricchitosi di nuovi contenuti, ma mantenendo di fatto immutato il campo di azione. Sconfinato durante la pandemia. E con validi risultati. A dimostrazione che quella del personale è un’area dalla quale si può estrarre valore. E non solo in un contesto emergenziale.
Futuro
Difficile trovare CEO che non professino l’importanza del capitale umano. Più facile trovare casi di limitata coerenza tra il dichiarato e l’agito. Forse perché la valutazione dell’importanza si presta a un’ampia scala interpretativa. Eppure, appare sempre più chiaro che, nell‘attuale contesto economico, le sfide per le aziende saranno quelle di eccellere nella capacità d’innovazione e nella qualità di gestione delle risorse umane. Tema quest’ultimo che richiede una discontinuità di approccio da parte degli azionisti e dei CEO per quanto riguarda il ruolo del HRD e il profilo di chi è chiamato a ricoprire tale posizione.
Di fatto, la carriera nel personale si intraprende per vocazione o per casualità. Comunque si entra nella vasta e accogliente famiglia professionale da giovani con una prospettiva, più o meno consapevole, di un percorso di crescita verticale, imbottigliati da pregiudizi e da una visione tecnico-specialistica della funzione che riducono le opportunità di carriera al di fuori. Dopo avere con gli anni arrotondato il profilo con esperienze orizzontali nello sviluppo, nella gestione o nell’organizzazione, i più ambiziosi puntano alla poltrona del proprio capo, per arrivare all’agognato traguardo del riporto diretto al CEO. Con il rischio di una lunga anticamera, in quanto è mediamente bassa la rotazione dei numeri uno di una funzione le cui performance non sono sempre facilmente misurabili. Gli impazienti valutano le occasioni esterne, attirati da nuove progettualità. Ma rigorosamente nella propria area professionale. Chiusi in una sorta di enclave che limita le opportunità di sviluppo in altri ambiti manageriali, ostacolando di fatto le possibilità di accesso a posizioni di capo azienda. Con uno schema di gioco che paradossalmente è rimasto invariato negli anni, immutato nonostante i numerosi processi di cambiamento, e che forse è opportuno venga ora riconsiderato. In quanto le competenze richieste per essere un buon HRD non si limitano a quelle prettamente specialistiche. È vitale saper comprendere molto bene le fluttuazioni dei mercati nei quali opera l’azienda, per anticipare la domanda di risorse e seguire attentamente i flussi dell’offerta. Essere in grado di formulare pacchetti retributivi innovativi e personalizzati, aggiornandoli in base alle esigenze, per rendere attrattiva la propria società. Dimostrare una consistente leadership nei riguardi della propria struttura, per essere credibili verso le altre direzioni. Saper rivedere i modelli organizzativi, per adattarli ad una globalizzazione riparametrata. Dunque, capacità commerciali, di marketing, di general management. Per gestire la funzione aziendale più trasversale, più coinvolgente, che ha in mano leve potenti e sempre più importanti, e che si troverà a breve ad affrontare rilevanti sfide come quella dell’inflazione. Un vampiro che si nutre degli aumenti salariali, indispensabili comunque, per non dissanguare i lavoratori. Funzione che non dovrebbe rimanere condizionata dal mantra della specializzazione, ma essere fertilizzata con inserimenti di manager provenienti da altri ambiti aziendali, apportatori di nuove competenze, di idee innovative, con una visione non convenzionale. Per i quali, peraltro, un’esperienza nel personale può risultare estremamente formativa, visto che la capacità di gestire le risorse umane in un contesto dall’imprevedibile evoluzione, sta diventando sempre più un fattore fondamentale per aspirare a posizioni di rilevanza manageriale. Fatto salvo, comunque, il mantenimento di un solido presidio specialistico, si tratta di aprire la funzione a figure professionali che l’aiutino nella sua aspirazione ad essere sempre più vicina al business. Attratte da un passaggio in quest’area visto come un utile complemento in un’ottica di sviluppo di carriera. Area, per altro, sempre più strategica per il successo aziendale e che richiede un profilo rotondo per chi si trova a gestire una posizione così pesante.
Si tratterebbe dunque, di strutturare percorsi di carriera a doppia via, con manager di business che sviluppino una tappa del proprio percorso professionale all’interno della funzione del personale e con professional dell’area che si cimentino con esperienze al di fuori della propria zona di competenza, idealmente con responsabilità di P&L. Ciò richiede comunque, un forte supporto da parte dei CEO, consapevoli dell’opportunità di avere al proprio fianco una direzione del personale forte e preparata per affrontare sfide non convenzionali. La conseguente valorizzazione del ruolo può tra l‘altro permettere di attrarre manager di alta caratura, stimolati dalla prospettiva di una carriera che non rimane chiusa fra le mura della famiglia professionale, ma che può offrire anche sbocchi rilevanti. Soprattutto se gli azionisti, seguendo l’esempio Toyota, si decidessero a inserirli nei processi di successione al CEO.
“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo farle; è perché non osiamo farle che le cose sono difficili” (Seneca).
Massimo Milletti è Presidente di Eric Salmon & Partners.