MONDO FORMAZIONE
ALESSANDRA COLONNA
Giugno 2025
Nel mondo del lavoro contemporaneo, dominato da scenari instabili, cambiamenti accelerati e interdipendenza tra ruoli, funzioni e competenze, la capacità di apprendere rapidamente, collaborare in modo autentico e generare innovazione non è più un elemento accessorio, ma un requisito essenziale per tentare almeno di affrontare la complessità. Tuttavia, questi comportamenti fondamentali non nascono da soli: hanno bisogno di un terreno fertile su cui poter crescere.
La sicurezza psicologica, come definita da Amy Edmondson, è la convinzione condivisa che nel proprio team e nel proprio contesto lavorativo sia possibile esporsi, ossia che si possano fare domande, proporre idee, ammettere un errore senza temere ripercussioni, giudizi o svalutazioni. È la base relazionale e culturale che rende possibile portare sé stessi nel lavoro senza il faticoso onere di indossare maschere. Dove manca la sicurezza psicologica, le persone si proteggono. L’ambiente è percepito come minaccioso e si attivano sistemi automatici di difesa: attacco o fuga. È la logica arcaica del fight or flight, che riduce lo spazio per il dialogo costruttivo e ostacola l’apprendimento.
Nel primo caso la risposta di attacco si manifesta attraverso diverse forme di aggressività verbale: sarcasmo, interruzioni, domande controllanti, tono svalutante, ironia pungente. Anche modalità più sottili, come domande retoriche o ambigue, confronti impliciti, battute sminuenti, scattano per proteggersi tutte le volte in cui la vulnerabilità non viene tutelata ma giudicata. In questi contesti, la comunicazione non serve a costruire relazione o comprensione reciproca, ma diventa uno strumento per mantenere il controllo, affermare la propria posizione e reprimere l’impatto dell’altro.
Anche chi esercita la leadership può attivare queste dinamiche. Quando sente minacciata la propria autorevolezza, può irrigidirsi, chiudersi o difendersi per riprendere il controllo. La vulnerabilità non tiene conto del ruolo che si ricopre: tutti siamo umani e tutti l’avvertiamo, facendocene scudo nei modi più diversi.
L’altra strada è la fuga: le persone scelgono il silenzio, evitano di sollevare dubbi, mettono da parte intuizioni preziose pur di non esporsi, evitare tensioni o sembrare incompetenti. Entrambe queste reazioni comportano rischi elevati: si perdono occasioni per evolvere, si consolidano errori, si generano zone cieche e si alimenta un’illusione di consenso che ostacola decisioni efficaci e sacrifica opportunità di crescita.
Le conseguenze di un basso livello di sicurezza psicologica possono manifestarsi in modi diversi: aumento del turnover, calo dell’engagement, scarsa innovazione, perdita di efficienza, quiet quitting, perdita di brand reputation, solo per citarne alcune. Le persone smettono di contribuire in modo proattivo, facendo solo il minimo per “non sbagliare”. Le organizzazioni, a loro volta, diventano meno attrattive, soprattutto per i talenti più sensibili a questi fattori.
Ecco perché la sicurezza psicologica non è qualcosa di soft, ma un prerequisito essenziale per generare apprendimento continuo, crescita e collaborazione autentica. Non si tratta di creare realtà accoglienti o di eliminare il conflitto, ma di promuovere spazi in cui dissentire non significhi esporsi a un rischio, in cui l’errore sia una risorsa e non qualcosa da nascondere, in cui la voce di ciascuno abbia dignità e peso, a prescindere dal ruolo. Creare ambienti psicologicamente sicuri esige consapevolezza, intenzionalità e soprattutto elevate competenze relazionali. È una responsabilità condivisa, in cui la leadership ha certamente un ruolo chiave, ma che coinvolge ogni persona all’interno delle organizzazioni.
Questa dimensione relazionale è un processo da sostenere nel tempo con un impegno costante, anche attraverso lo sviluppo di abilità di dialogo, ascolto e confronto. Quando le persone si sentono al sicuro, non solo contribuiscono di più: si attivano, propongono, si assumono responsabilità. È allora che le organizzazioni evolvono, come spazi di apprendimento condiviso e trasformazione continua.
La sicurezza psicologica non si vede, ma si sente: nei silenzi, nei dubbi non espressi, nelle idee trattenute. Misurarla significa darle forma e concretezza, per poterla sostenere e sviluppare avviando un processo di cambiamento consapevole. Per questo, noi di Bridge Partners® insieme a The Way – associazione no profit – e in collaborazione con l’Università di Torino e l’Università Cattolica di Milano, stiamo lavorando a un assessment scientificamente validato, costruito secondo criteri psicometrici, che renda visibile e misurabile il livello di sicurezza psicologica percepita nei team. Quando iniziamo a dare voce a ciò che resta in ombra, creiamo le condizioni affinché il lavoro diventi davvero uno spazio di possibilità.
ALESSANDRA COLONNA è CEO Bridge Partners®