MONDO FORMAZIONE
CARLO BRANZAGLIA
Giugno 2023
Mentre viaggiamo velocemente verso un mondo (apparentemente) sempre più digitalizzato, le metafore provenienti dalla meccanica della materia si sprecano. Anzi, forse accade proprio per questo. In infografica, il sistema visuale schematico che spiega processi e quantità, si fa un gran ricorso a pulegge e ingranaggi per individuare il funzionamento di macchinari metaforici (che siano l’organizzazione politica di uno Stato, il ciclo di fabbricazione della birra o l’agglutinarsi di proteine); mentre nelle terminologie comuni, talora esplose ai limiti del fashionable, si diffondono parole come “resilienza”, che dall’indicare la capacità dei metalli di tornare agli assetti originari, precedenti un trauma, diventa dinamica di ordine sia psicologico sia comunitario, in risposta a stati di crisi.
È la bellezza della metafora: usare un termine concreto per definire un concetto di altro livello; una delle armi più potenti dell’arte retorica, a partire dai Romani a oggi. Perché le retoriche possono essere testuali, ma anche visuali, come esemplificato dai casi sopra citati. Anche la failure theory viene dalla cultura materiale: indica le condizioni nelle quali un meccanismo fallisce il suo scopo sotto la pressione di elementi esterni. È un campo interdisciplinare fra meccanica e scienza dei materiali, il che lo rende ancora più interessante sul piano metaforico: perché segnala che il fallimento, l’errore, l’inciampo può provenire da diverse sorgenti. Perché d’altra parte, se metaforizziamo un termine rapportandolo ad attività umane, è normale che la questione possa assumere diverse angolature.
L’idea di una teoria dei fallimenti è tornata spesso utile a descrivere situazioni particolari della nostra vita sociale. Ad esempio, in relazione alla pandemia vissuta negli anni passati; o alla mancanza di rituali di passaggio nella crescita dei nostri giovani; o alla possibilità di implementare le performance delle risorse umane all’interno di una organizzazione. A segnalare come l’assenza di fallimento – ovvero l’assenza di errori (e loro riconoscimento), battute d’arresto, crisi – venga in realtà a inficiare la capacità di adattamento e di sviluppo insita nella dimensione umana, a qualunque livello la si applichi, sia esso comunitario, politico, economico, lavorativo.
Nel nostro concetto di crescita lineare e progressiva, dettata da matrici culturali fortemente infarcite di ideologia, non c’è spazio per l’incertezza, l’errore, lo stop improvviso. Non c’è spazio insomma per una formazione che vada al di là dell’ottenimento di una capacità di generare performance, e miri di fatto alla costituzione di profili più complessi, forse più ambigui, ma per questo destinati ad assorbire con maggiore facilità crisi e fratture, trasformandoli in meccanismi di innovazione. Il che vale per tutti, perché i processi di formazione non finiscono, mai, e vale soprattutto per i giovani, che la loro formazione la devono appunto conseguire appieno.
L’errore e il fallimento sono dunque interessanti non solo e non tanto perché fanno insindacabilmente parte della vita quotidiana, ma perché attraverso la loro esperienza è possibile scatenare quelle energie che permettono di superare la crisi da essi derivata in maniera originale, creativa e, alla fine dei conti, innovativa, se ripresa a vario titolo fino a diventare modello. Ciò significa che una soluzione esperita una tantum può trasformarsi, in applicazioni successive ancorché variegate, in un modello d’azione, da cui potrà derivare (ma anche no) quell’assetto maggiormente strutturato. Un assetto, dobbiamo auspicarlo, ancora flessibile, che chiamiamo metodologia.
L’elemento nodale che permette lo sviluppo di questa dinamica è l’esperienza. Fare esperienza significa darsi a una pratica del quotidiano che permetta di inventare continuamente soluzioni, spesso efficaci, spesso no, fra le quali “modellizzare” quelle apparentemente più appropriate. Per riconoscerle, appunto, bisogna provare e riprovare: è il modello del “learning by doing” del caposcuola del pragmatismo statunitense, John Dewey. È il modello della competenza tecnica fino alla sua cristallizzazione nella Encyclopedie di Diderot e d’Alembert. È la teoria delle arti pratiche cantata da Michel de Certeau e attribuita a chi ha dalla sua solo tattiche pragmatiche, contrapposte alle strategie ideologiche: la gente. Ma è anche la logica delle industrie creative, quelle sulle quali nell’ultimo decennio si è concentrata l’attenzione di politica ed economie perché capaci di introdurre innovazioni nell’intero sistema economico e sociale. Sono i designer, i progettisti di algoritmi, gli artisti, i “creativi” (brutto termine, ma funziona) in genere, capaci di dare visioni immaginifiche basate sulla practice senza pensare tanto alle evidences. Practice based evidence contro (o in equilibrio con) evidence based practice. Forse un modo per uscire da una idea del progresso lineare, evidentemente poco funzionale.
CARLO BRANZAGLIA è Coordinatore Scientifico della Scuola Postgraduate di IED Milano