RISORSE UMANE

Il clima interiore

Filippo Accettella

Settembre 2025

Il clima interiore

Mohamed Nohassi - Unsplash

 

Il termine “languishing”, coniato da Corey Keyes, docente dell’Università di Emory, sta a indicare la tendenza a lasciarsi andare, a rinunciare a prendere iniziative, poiché ogni sforzo sarebbe inutile.

In un articolo pubblicato sul New York Times, Adam Grant, psicologo della University of Pennsylvania, descrive il languishing come “un senso di stagnazione e di vuoto. Ti senti come se ti stessi confondendo tra i giorni, come se guardassi la tua vita da un finestrino appannato”.

Il suo contrario è il “flourishing”, coniato da Seligman & Csikszentmihaly, ed è la condizione positiva dell’esistenza, la sua pienezza e vitalità che comprende non solo la felicità, l’ottimismo, la salute, le relazioni sociali e persino la spiritualità.

La Mental Health Foundation definisce il “flourishing” come uno stato in cui le persone provano emozioni positive e un funzionamento sociale positivo che danno accesso a una vita piacevole, impegnata, buona e significativa, mentre Tyler J. Van-derWeele, esperto di biostatistica ed epidemiologo, parla di sei fattori determinanti: la felicità e la soddisfazione, la salute mentale e fisica, il significato e lo scopo dell’esistenza, il carattere e le virtù, le robuste relazioni sociali, a cui si aggiunge la sicurezza finanziaria e materiale.

Lo psicologo Martin E.P. Seligman, autore di Flourish, rintraccia il benessere negli esercizi di psicologia positiva, mentre per l’esperta di neuroscienze, Barbara L. Fredrickson dell’Università del Michigan, autrice di Positivity, la prosperità deve comprendere la bontà, la generatività, la crescita e la resilienza.

Aristotele parlava di “eudaimonia”, la forza interiore che spinge al bene, che tende alla perfezione della persona, esprimendo tutte le potenzialità volte alla realizzazione di sé stessi. Diceva che la felicità è il principale scopo degli uomini e si nutre della speranza di una realizzazione futura. Per questo Max Weber, il maggior sociologo della modernità, mette a punto l’idea del “rinvio della gratificazione”, cioè l’esigenza di rimandare ogni beneficio a un tempo successivo e indeterminato, nella speranza di avere, per allora, i mezzi o le facoltà di goderne.

Anche il capitalismo prometteva la felicità, ben consapevole delle parole di Aristotele, ma l’ha tradotto brutalmente nella materialità del consumismo. La felicità diviene allora un oggetto quantificabile, si identifica con il possesso, la disponibilità immediata, l’avere, il consumare.

La felicità dei lavoratori paga in termini di maggiore produttività: qualche anno fa, negli Stati Uniti, sono stati stimati in 500 miliardi di dollari l’anno i danni prodotti dall’infelicità, in termini di ricchezza mancata, tasse non riscosse e costi sanitari. In The Killing Fields of Inequality (Polity), il sociologo Göran Therborn stabilisce un rapporto diretto tra disuguaglianza sociale, disoccupazione e infelicità.

Il problema preoccupa talmente tanto le grandi multinazionali, determinate a raggiungere obiettivi e margini di guadagno sempre più consistenti, da aver messo all’opera veri psicologi dell’entusiasmo capaci di stimolare una particolare area del cervello. William Davies ne parla in L’industria della felicità.

Per non parlare delle indagini di clima, survey di soddisfazione che le aziende ogni anno fanno ai loro dipendenti per misurarne il grado di soddisfazione lavorativa, il livello di motivazione, il benessere psico-fisico (o stress da lavoro correlato), la percezione della meritocrazia e dell’inclusione e parità di trattamento. O la partecipazione a classifiche che mettano in ordine le aziende per livello di soddisfazione del cliente interno.

Ma come possiamo contrastare il “languishing” coltivando il suo opposto, il “flourishing”? Quest’ultima domanda se la sono posta i ricercatori delle Università di Baylor e di Harvard, in collaborazione con il Center for Open Science e l’Istituto di Analisi Sociodemografiche Gallup, al momento di intraprendere uno dei più vasti sondaggi a livello mondiale, il Global Flourishing Study.

La ricerca, iniziata nel 2020, prevede una serie di domande sulle condizioni personali e precise indicazioni demografiche sociali, economiche, politiche e religiose, includendo la personalità, l’infanzia, la comunità, la salute e il carattere. Una sorta di screening sullo stato globale di benessere, che ha interessato oltre 200.000 persone di 40 lingue ed etnie diverse in 22 paesi e 6 continenti.

Il Global Flourishing Study ha determinato che il benessere aumenta con l’età, un dato che contraddice la consolidata indagine sociodemografica del passato, secondo la quale la curva del benessere formava un grafico ad “U”, partendo da un livello alto, corrispondente ad una giovinezza spensierata, scendeva al minimo nell’età adulta, per poi risalire dopo il pensionamento. Secondo l’economista David Blanchflower, la massima insoddisfazione si raggiungeva tra i quaranta e i cinquant’anni (47,2-48,2).

Invece di una curva ad “U”, si parla ora di una curva a “J”, che parte da un livello più basso per risalire con regolarità nel corso degli anni. Più precisamente il grado di benessere resta abbastanza stabile fino all’età di cinquant’anni, per poi aumentare in seguito. Questo dimostra che i giovani sono meno soddisfatti e i loro anni migliori sono accompagnati dall’ansia e dalla solitudine. Anche l’Inner Peace, l’indice di “pace interiore”, che misura il grado di accettazione della realtà, la tranquillità mentale, la comprensione e la disponibilità al perdono cresce con l’età.

Il World Happiness Report, realizzato da Gallup col Wellbeing Research Center dell’Università di Oxford, registra ogni anno il livello di felicità di tutto il mondo: a determinare i paesi più felici sono gli alti livelli di fiducia e generosità nei confronti dell’altro, confermando quanto le buone relazioni sociali abbiano una grande importanza nella sensazione di benessere. La felicità si ottiene soprattutto attraverso l’altruismo, la capacità di donare agli altri, di fare volontariato.

Nel corso degli ultimi decenni, vari autori si sono cimentati nello studio dei fattori che promuovono il funzionamento psicologico ottimale, all’interno di quel filone di ricerca e intervento denominato Psicologia positiva. Uno dei più noti modelli è quello proposto da Ryff e Keyes e ripreso successivamente da Ruini, che definisce il concetto di benessere basato sulla presenza di sei dimensioni:

  • Accettazione di sé: atteggiamento positivo verso sé stessi, accoglienza e integrazione di caratteristiche positive e negative, accettazione del proprio passato;
  • Autonomia: autodeterminazione, capacità di prefiggersi obiettivi personali e individuazione di strategie per raggiungerli, regolazione del proprio comportamento;
  • Padronanza ambientale: senso di padronanza e capacità di interagire con l’ambiente utilizzando le opportunità esterne, capacità di creare contesti favorevoli alle proprie esigenze e valori;
  • Relazioni positive: presenza di relazioni supportive e affidabili, fonti di soddisfazione e benessere personale, capacità di provare empatia e intimità;
  • Scopo nella vita: presenza di scopi e auto-direzionalità, percezione di significato nella propria vita, valori;
  • Crescita personale: sentimento di continuo sviluppo di sé, apertura a nuove esperienze vissute come occasione di crescita, arricchimento personale.

Sulla base di questo modello, un canale attraverso cui coltivare lo stato di “flourishing” e far fiorire la propria vita potrebbe essere quello di potenziare ciascuno dei sei elementi di cui si compone il benessere psicologico, anche se le condizioni di restrizioni e isolamento sociale rendono questo compito ancora più difficoltoso di quanto non lo sarebbe “in tempi normali”.

Possiamo provare ad attuare un cambio di rotta attraverso la cura di queste sei dimensioni:

  • Accettazione: riconoscere e accettare quello che siamo, con i nostri aspetti positivi e negativi, riconoscendo come valide le nostre emozioni e legittimando, quindi, anche un eventuale stato di disagio. È fondamentale riconoscere di essere in difficoltà e, se necessario, chiedere aiuto a un professionista;
  • Autonomia e padronanza ambientale: anche se non possiamo cambiare la situazione ambientale intorno a noi, possiamo individuare ciò che è in nostro potere fare. Prefissiamoci obiettivi realistici nel breve, medio e lungo termine e individuiamo tempistiche, strumenti e strategie per raggiungerli. Organizziamo il nostro tempo nella maniera più funzionale possibile, cercando di non frammentare le nostre attività, per non alimentare un senso di incompiutezza e dispersione di energie;
  • Relazioni positive: coltiviamo rapporti profondi e continuativi con le persone, in presenza (laddove è possibile) o attraverso i mezzi di comunicazione offerti dalla tecnologia, in modo da condividere ciò che proviamo, sentiamo o pensiamo;
  • Scopo nella vita: recuperiamo i nostri valori, ciò che è importante e significativo per la nostra vita, e manteniamo il focus su di essi;
  • Crescita personale: proviamo a considerare un momento di difficoltà come un’occasione di crescita. Nessuno si augura di provare dolore nella propria vita, ma questa purtroppo è una condizione inevitabile dell’esistenza. È prezioso chiederci se sia così, interrogarci su quali miglioramenti possiamo notare in noi stessi: tutto può essere occasione di crescita.

Infine, c’è una stretta relazione tra il grado di istruzione e il benessere psicologico, l’ottimismo e le buone relazioni sociali. Dati confermati sia dal Global Flourishing Study che dall’OCSE e dall’UNESCO. Questo risultato sconfessa le polemiche sulla fiducia nelle scienze e la tendenza a negare l’importanza dei mediatori del sapere, di esperti e scienziati, in favore di un rapporto diretto, fai da te.

Quello che preoccupa di più è un futuro fatto di individui isolati che hanno un rapporto privilegiato con i dispositivi tecnologici. C’è da chiedersi quale benessere possa realizzarsi in una società che non comunica direttamente e non prevede relazioni personali con l’altro.

Tradotto il tutto nella dimensione lavorativa, la persona dev’essere considerata nell’accezione più comune e umana del termine, analizzata spesso nei suoi aspetti più profondi come un mosaico di sentimenti, idee, capacità e percezioni, talvolta inserita all’interno di una dimensione più ampia come parte di una collettività. È doveroso ricordare che: il lavoro non soddisfa semplicemente un bisogno primario di sostentamento psicofisico, ma ha un importante valore psicosociale e svolge importanti funzioni psicologiche “latenti”; il benessere organizzativo è strettamente connesso al benessere personale dei collaboratori, è multideterminato e le sue conseguenze possono essere determinanti, sia per le prestazioni individuali dei collaboratori, che per le performance aziendali nel complesso;  l’employee engagement ha il potere di influire su molteplici indicatori di performance aziendali, e ha un’importanza tale da poter determinare il successo o l’insuccesso di un’organizzazione. 

Da tali evidenze è possibile trarre importanti conclusioni, alcune delle quali possono avere un risvolto pratico significativo nelle politiche (non solo) HR delle imprese, e nelle decisioni e nelle condotte quotidiane di vita organizzativa. La funzione economica del lavoro passa in secondo piano, facendo spazio agli aspetti del lavoro che soddisfano bisogni immateriali dei lavoratori, come la significatività del lavoro stesso, il senso di soddisfazione e di autorealizzazione, il riconoscimento e la valorizzazione del proprio contributo personale, e la possibilità di crescita formativa ed esperienziale. L’attenzione alla salute dei dipendenti (nella sua accezione più completa di totale benessere psicofisico) è il presupposto necessario per dar vita a un ambiente di lavoro stimolante, in cui domini un clima di serenità, di collaborazione, di condivisione degli obiettivi e orientamento al miglioramento continuo e all’innovazione.

Il work engagement si accinge a divenire il vero obiettivo perseguito dalle organizzazioni più “attente” e proattive. L’engagement incide profondamente su diversi indicatori di performance, come profitto, fatturato, profittabilità, portafoglio di clienti, produttività; riduce notevolmente i tassi di assenteismo e di turnover volontario dei dipendenti, e di conseguenza i costi ad essi connessi; riduce il livello di rischi e il numero di incidenti e infortuni, disincentivando comportamenti irresponsabili e rischiosi sul lavoro; migliora la qualità dei beni prodotti e/o dei servizi erogati; aumenta la soddisfazione e la fidelizzazione del cliente, incentivando anche comportamenti di customer advocacy.

Meritano considerazione anche l’importanza della fiducia e del ruolo centrale del management. La fiducia, in particolare, è un atteggiamento verso gli altri o verso sé stessi che risulta da una valutazione positiva di fatti e circostanze, ed è una variabile che condiziona diversi rapporti, tra cui quello che l’individuo ha verso il proprio “self” e verso le proprie capacità, il rapporto tra co-workers e tra i collaboratori e i capi (e di conseguenza l’organizzazione), il rapporto tra l’impresa e i suoi clienti. La fiducia verso i propri colleghi e verso il management è una dimensione così rilevante da definire il livello di sicurezza e di benessere che gli individui percepiscono nel proprio ambiente lavorativo, e da orientare i loro atteggiamenti verso il lavoro. Non è un caso, infatti, che uno dei due strumenti dell’indagine di clima condotta da Great Place to Work sia, appunto, il Trust Index.

La fiducia è anche uno dei valori cui deve ispirarsi la condotta dei manager, che ha un ruolo sempre più rilevante nella definizione del successo di un’impresa. Non a caso, valori come il rispetto, la fiducia, e comportamenti come la collaborazione, il supporto reciproco, l’orientamento al miglioramento continuo, la comunicazione aperta e il libero confronto sempre più spesso sono parte della cultura aziendale delle imprese nascenti, o rientrano nei programmi di culture transformation che stanno interessando organizzazioni già esistenti.

Anche i modelli di leadership attualmente si ispirano sempre di più alle Positive Leadership tipiche delle cosiddette Organizzazioni Positive, stimolano i leader ad adottare comportamenti coerenti con la filosofia aziendale e con gli obiettivi dichiarati, ad attivare routine positive e orientate alla comprensione e all’ascolto, all’empatia e al supporto, per generare nei collaboratori un senso di fiducia verso il management e  l’organizzazione, e costruire un ambiente di lavoro dominato da una rete di connessioni positive e stimolanti (anche tra i diversi livelli organizzativi).

La “felicità” dell’azienda dovrebbe essere premura di ciascun leader e ogni manager dovrebbe riconoscersi nel ruolo di Chief Happiness Officer, come garante del benessere dei suoi collaboratori e della loro partecipazione attiva ed entusiastica alla vita organizzativa dell’impresa. Costruire un’azienda felice significa prima di tutto costruire un ambiente di lavoro sano, stimolante, creativo e innovativo, ma anche un ambiente caloroso e familiare, in cui ogni membro possa sentirsi accolto, supportato, e incentivato ad esprimere liberamente sé stesso nel proprio lavoro, e a cogliere ogni opportunità di crescita. E, se è vero che la felicità di un’azienda è un requisito fondamentale per raggiungere un successo che sia sostenibile nel tempo, è vero anche che, prima di tutto, è la felicità stessa dei suoi collaboratori a costituire il vero successo di un’organizzazione.  

 

Filippo Accettella, Head of People Empowerment Enel Italia.

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