ECONOMIA & SOCIETÀ
Antonio Acunzo
Luglio 2025
“Making Global History”. Con questo tono trionfante inizia il comunicato ufficiale del 28 luglio della Casa Bianca che sancisce l’accordo raggiunto tra Stati Uniti e Unione Europea in tema di dazi al 15%, in vigore dal 1° agosto 2025, e che, come dichiarato dal presidente americano Donald J. Trump, rappresenta un accordo commerciale che riequilibria radicalmente le relazioni economiche tra le due maggiori economie del mondo,
L'accordo, definito storico, segna una modernizzazione generazionale dell'alleanza transatlantica e fornirà agli americani livelli senza precedenti di accesso al mercato dell'Unione Europea, rafforzando l'economia USA. L’accordo prevede, in prospettiva, anche l’acquisto di $750 miliardi di energia nell’arco dei prossimi 3 anni (riducendo la dipendenza europea dalla Russia) e nuovi investimenti europei negli Stati Uniti per 600 miliardi di dollari (che si aggiungono agli oltre 100 miliardi che le imprese UE già investono ogni anno). Il tutto nel triennio 2026- 2028.
Con questo accordo, che segue l’Economic Prosperity Deal siglato a inizio maggio con la Gran Bretagna (dazi al 10%), il trade deal con il Giappone (dazi al 15% e investimenti per $550 miliardi) e gli accordi con Paesi investitori come Arabia Saudita ($600 miliardi di investimenti in USA), UAE ($200 miliardi in aggiunta a $1,4 trilioni di investimenti in USA siglati a marzo 2025) e Qatar ($1,2 trilioni di investimenti), si riconferma, come ribadisce Trump, il ruolo preminente degli USA come destinazione primaria al mondo per investimenti, innovazione e produzione avanzata.
Certamente siamo lontani dall’obiettivo ambito da più parti di dazi zero, sicuramente utopico visto i nuovi scenari geopolitici del 21mo secolo che vedono mettere in discussione e riconsiderare il concetto di accordi commerciali e di free trade, e anche lontani dal ventilato 30% di dazi evocato da Trump prima dell’accordo al 15% raggiunto con Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, il 27 luglio 2025 durante l’incontro privato tra I due leaders al golf club di Turnberry in Scozia.
L’impatto del 15% non è indolore per le imprese del Made in Italy, ma riporta fiducia e stabilità nel dialogo translatlantico ponendo fine alle tensioni commerciali e rivitalizzando, invece, la cooperazione economica tra Stati Uniti e Italia a vantaggio delle imprese che operano nei due mercati; che sono fortemente interconnessi sia per scambi sia per investimenti dato che gli USA sono il principale investitore estero in Italia e il primo destination market per le imprese italiane.
Le ripercussioni dei dazi saranno differenti a seconda di settori e comparti di business.
Secondo l’ISPI, i nuovi dazi potrebbero generare una contrazione del PIL italiano solo del 0,17% (rispetto allo 0,11% previsto per la Francia e 0,29% per la Germania, con una contrazione media EU del 0,21%) e un impatto negativo dell’1,32% sul PIL americano.
Da considerare anche l’addizionale impatto dovuto dalla svalutazione del 13% del dollaro USA rispetto all’euro da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, fattore che si somma ai dazi rendendo più costoso il prodotto italiano per i consumatori americani. I quali, però, pur preoccupati dei rincari non riducono i consumi anzi alimentano gli acquisti; e anche Wall Street pare ben assorbire, registrando continui aumenti, grazie anche all’economia USA che ha chiuso il secondo trimestre 2025 con una crescita del 3%.
Guardando all’Italia, senza i soliti allarmismi, degli oltre $70 miliardi di export italiano verso gli USA i settori più esposti sono meccanica (27% dell’export), chimico-farmaceutico (20%), moda (17%), agroalimentare (12%), trasporti (11%) e luxury (9%), ma l’impatto reale dei dazi potrebbe essere relativo “solo” a una base di valore di 45-50 miliardi perchè per alcuni prodotti definiti “strategici” - quali farmaceutico e produzioni ad alta tecnologia (tra cui semiconduttori e componentistica aeronautica) - ci si aspetta il beneficio di una totale esenzione dai dazi come risultato di una negoziazione attualmente work-in-progress proprio con l’obiettivo di tariffe zero.
Il Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha commentato i dazi del 15% dicendo che “Per noi tutto quello che è oltre lo zero è un problema” e, in previsione di una perdita stimata dal Centro studi di Confindustria fino a €22,6 miliardi per le imprese per l’effetto congiunto dei dazi e della svalutazione del dollaro (perdite difficilmente compensabili pensando a soluzioni di export verso mercati alternativi quali Mercosur e ASEAN), chiede un nuovo piano industriale.
Forte l’impatto per il settore italiano automotive, pur vedendo i dazi scendere dal 25% al 15%, perchè mentre per le imprese tedesche la soluzione della delocalizzazione produttiva negli Stati Uniti può essere percorribile anche solo in ottica di incremento della produzione in USA, perchè è già una realtà per diversi marchi (BMW in South Carolina, Mercedes in Alabama e Volkswagen in Tennessee), lo stesso non è pensabile per i brand italiani, già in crisi nel mercato interno per la contrazione della domanda.
Per l’agroalimentare Italiano, così come per gli altri settori, si dovrà valutare quanto i prodotti italiani abbiano una capacità di sostituzione (rispetto a prodotti simili di altri Paesi e a costo inferiore) così che la domanda può risultare inelastica perché consumatori e aziende non modificano le proprie scelte solo sulla base di un aumento di prezzo.
In termini di elasticità della domanda, va considerato che per categorie di prodotti ad elevata specializzazione e di nicchia si rileva una maggiore tenuta del Made in Italy di fascia alta proprio perchè non sensibile al prezzo e non soggetto a variazioni imputabili ad aumenti di prezzo.
Occorre, per il future, ritenere che I dazi del 15% siano il nuovo standard. I dazi si rifletteranno sui valori dell’export e sui livelli occupazionali delle imprese, per cui si rende necessario pensare a strategie che possano limitare i danni partendo da questo nuovo punto di riferimento, con strategie da applicare sia sul fronte del Governo sia di azioni delle imprese. Il governo italiano può valutare aiuti di Stato sotto forma di ristori con un pacchetto di indennizzi e di meccanismi compensativi a favore dei settori più colpitis, utilizzando fondi europei in conformità con le direttive europee che vigilano sugli aiuti diretti alle imprese da parte dei singoli Stati membri, per arrivare eventualmente anche a deroghe ai vincoli del patto di stabilità. Altro ambito è quello di riallineare il tasso di cambio tra dollaro ed euro per rendere meno costose le esportazioni.
Le aziende da parte loro devono reinterpretare il modo di fare export per rimanere competitive in un mercato già di per sè altamente competitivo e tutelare brand e prodotto.
Come? Ecco una roadmap di cosa è consigliabile fare:
- Ridisegnare la strategia di export, da passivo ad attivo, e trasformarsi in brand attivi per un export capace di generare domanda e non solo soddisfarla passivamente.
- Analizzare l’elasticità della domanda per i propri prodotti.
- Valutare quale strategia di pricing è più efficace per gestire diversamente i dazi lungo la catena del valore che definisce tutte le attività del ciclo produttivo (dalla materia prima al prodotto finito).
- Valutare possibili margini di assorbimento dei dazi stessi ed eventualmente negoziare con l’importatore/distributore USA che a sua volta può decidere di assorbire il dazio in maniera parziale o totale modificando il margine di intermediazione.
- Ridefinire il posizionamento di valore, aumentando il valore percepito sul proprio prodotto invece che operare solo sul prezzo, investendo in brand building (a maggior ragione se prodotto e brand non godono di riconoscibilità), su packaging premium, logiche “limited edition”, comunicazione focalizzata su lifestyle, sostenibilità, artigianalità, e su tutti quegli elementi di unique selling proposition, che possono distinguere il prodotto rispetto alla concorrenza.
- Investire direttamente nel mercato USA in relazioni B2B e tattiche di engagement per demografiche di acquisto, per tutelare brand awareness e fidelizzazione del cliente e generare risultati.
In sintesi, essere Ready4USA, pronti per il mercato USA!
Antonio Acunzo è CEO di MTW GROUP USA, società di advisory di international business con sede a Miami in Florida dal 2005 che offre consulenza manageriale strategica per l’Internazionalizzazione nel mercato USA integrata con servizi di Marketing Communication, Brand Marketing, Business Development e Corporate alle aziende PMI e Mid-Market del Made-in-Italy che guardano al mercato U.S.A. per la propria crescita ed espansione attraverso piani di internazionalizzazione strutturata come Joint-Venture, M&A, FDI e piani di Direct Export (antonio.acunzo@mtw.group * www.mtw.group)
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