INTELLIGENZA ARTIFICIALE

L’IA e il grande disallineamento formativo: come colmarlo

Dario Russo

Luglio 2025

L’IA e il grande disallineamento formativo: come colmarlo

 

I laureati sanno lavorare con la GenIA? Negli ultimi dodici mesi, le parole “intelligenza artificiale generativa” sono entrate stabilmente nel vocabolario quotidiano di manager, imprenditori, professionisti e policy maker. Dapprima percepita come fenomeno emergente, oggi la GenIA è riconosciuta come leva strategica per l’evoluzione di interi settori: dalla sanità alla finanza, dalla logistica ai contenuti digitali. In molti casi, non è solo uno strumento di efficienza, ma una tecnologia trasformativa che può ridisegnare prodotti, relazioni con i clienti, modelli di governance.

Tuttavia, nella corsa all’adozione, un nodo strutturale sta rallentando la piena espressione del potenziale innovativo: la carenza di competenze adeguate. Le imprese italiane — ma lo stesso si osserva a livello europeo — si trovano a fronteggiare un paradosso inquietante. Da un lato, la tecnologia è disponibile, sempre più accessibile, supportata da un’offerta crescente di tool e soluzioni. Dall’altro, mancano le persone in grado di comprendere, selezionare, integrare e utilizzare questi strumenti in modo strategico e responsabile.

Il paradosso non è nuovo, ma oggi assume una forma più grave. Con la GenIA, ciò che è in gioco non è solo la capacità di utilizzare una nuova tecnologia, ma la capacità di riorganizzare interi processi cognitivi e decisionali. L’errore non è più solo tecnico: può essere etico, reputazionale, strategico. E il rischio non è solo l’inefficienza: è la perdita di competitività.

 

Il valore strategico della competenza

Quando si parla di competenze, si rischia spesso di cadere in una rappresentazione semplificata, in cui il problema si risolve “formando più persone su più cose”. Ma nel caso della GenIA, la questione è più sottile. Non si tratta solo di aggiornare un repertorio tecnico, ma di costruire figure nuove, capaci di dialogare tra domini tradizionalmente separati: tecnologia e diritto, intelligenza artificiale e creatività, algoritmi e comportamento umano.

Le competenze richieste non sono solo verticali. Al contrario, l’elemento critico è la capacità di ibridare linguaggi e saperi, di muoversi in territori dove la tecnica incontra la strategia, dove l’analisi dei dati incontra l’intuizione, dove l’output del modello deve essere interpretato, contestualizzato, eventualmente rifiutato. In altri termini, serve un nuovo umanesimo tecnologico: manager, giuristi, economisti, designer che sappiano lavorare con l’intelligenza artificiale, e non semplicemente sull’intelligenza artificiale.

Questo tipo di competenze non si improvvisa. Non si acquisisce con una certificazione rapida o con un tutorial su YouTube. Richiede percorsi formativi articolati, esperienze strutturate, ambienti organizzativi che riconoscano e valorizzino la qualità della riflessione, dell’analisi, della responsabilità.

 

La frattura tra accademia e imprese

Ed è qui che il disallineamento tra università e mondo del lavoro si fa evidente. Se le imprese stanno cercando profili capaci di affrontare la complessità della GenIA in modo strategico, molte università italiane continuano a offrire percorsi settoriali, non sempre aggiornati, pensati per un mondo che nel frattempo è cambiato.

Per verificare questo scarto in modo sistematico, abbiamo sviluppato un modello di valutazione della “GenAI Readiness” dei corsi universitari italiani. Insieme a tre colleghi dell’Università La Sapienza di Roma, abbiamo applicato il modello a un primo campione di oltre duecento corsi di laurea, valutando il loro grado di allineamento con cinque profili emergenti del mondo GenIA: il GenAI Data Scientist, il Prompt Engineer, lo specialista in etica dell’IA, il Product Manager dell’IA e il Creative AI Specialist. I risultati, presentati alla conferenza internazionale CARMA 2025[1], confermano le intuizioni di molti manager: poche eccellenze, molte lacune, fortissima disomogeneità.

I corsi tecnici sono spesso solidi dal punto di vista informatico, ma carenti sul fronte dell’etica, della gestione del rischio, della consapevolezza applicativa. I corsi umanistici e giuridici, al contrario, toccano spesso temi rilevanti per l’etica dell’IA o la regolazione dei sistemi intelligenti, ma senza fornire alcuna familiarità con gli strumenti operativi. Nel mondo delle discipline creative, il divario è ancora più netto: la GenIA sta rivoluzionando la produzione di contenuti, ma le competenze per governare questa rivoluzione sono quasi del tutto assenti nei curricula ufficiali.

 

Oltre la formazione: la responsabilità delle organizzazioni

A questo punto è legittimo chiedersi: che cosa possono fare le imprese? La risposta non può essere semplicemente “aspettare” che l’università si adegui. Il tempo dell’attesa è finito. Chi oggi investe in GenIA, chi ne fa una leva competitiva, ha bisogno di persone già formate, o almeno formabili in tempi rapidi. E soprattutto ha bisogno di ambienti organizzativi che siano in grado di accogliere queste competenze, valorizzarle, integrarle nel disegno strategico.

Per questo, la questione delle competenze IA non può essere delegata al solo ambito formativo. È una questione di architettura organizzativa. Le imprese devono chiedersi se le loro strutture — formali e informali — sono in grado di apprendere, se favoriscono l’esplorazione e la sperimentazione, se esistono spazi sicuri in cui il personale può testare strumenti IA senza il timore di errori irrimediabili. Devono chiedersi se i propri sistemi di valutazione riconoscono il valore della “AI literacy” come asset professionale, o se invece continuano a premiare solo l’efficienza dei processi ereditati.

Le organizzazioni che hanno affrontato con successo la trasformazione digitale — come hanno mostrato gli studi di McKinsey, BCG e Deloitte — sono quelle che hanno saputo combinare investimento tecnologico e investimento organizzativo. La GenIA rende questa combinazione ancora più essenziale, perché introduce discontinuità cognitive che toccano i fondamenti del lavoro di concetto. E in molti casi, richiede una ridefinizione dei ruoli stessi.

 

Una transizione da guidare

C’è una parola chiave che riassume il compito che ci attende: transizione. Non una transizione tecnologica. Piuttosto, una transizione cognitiva e culturale, che riguarda la capacità del sistema formativo e di quello economico di riconoscere il cambiamento e di prepararsi ad affrontarlo insieme.

Università e imprese devono smettere di operare come silos. Devono attivare circuiti di feedback reciproci. Le imprese devono contribuire attivamente alla definizione dei contenuti formativi. Le università devono aprirsi all’interdisciplinarietà, ai problemi reali, alle metriche di impatto. Serve una convergenza tra sapere e fare, tra ricerca e applicazione.

Nel frattempo, le imprese più lucide stanno già muovendosi. Alcune hanno avviato programmi interni di formazione GenIA con logiche blended, altre hanno costruito partnership con atenei per moduli di specializzazione in prompt engineering o etica dell’IA. Altre ancora stanno ridefinendo i propri processi di recruiting per includere la valutazione di competenze “invisibili” ma decisive, come la capacità di valutare l’affidabilità di un output generato da un modello LLM.

 

Una sfida sistemica

In ultima analisi, ciò che ci troviamo ad affrontare è una sfida sistemica. Non riguarda solo le università, né solo le imprese. Riguarda l’intero ecosistema della conoscenza, la nostra capacità di prepararci a un futuro in cui l’intelligenza artificiale sarà parte integrante della nostra intelligenza collettiva.

Per affrontare questa sfida, servono strumenti di misurazione, modelli di lettura, alleanze strategiche. Il modello di “GenAI Readiness” è un primo passo in questa direzione: non risolve il problema, ma aiuta a nominarlo, a renderlo visibile, a discuterlo con dati alla mano.

Ma soprattutto, serve una nuova visione della leadership. Una leadership capace di riconoscere che la competenza non è solo un attributo individuale, ma un bene organizzativo, un capitale strategico, una leva di trasformazione. E che investire oggi in competenze GenIA non significa prepararsi al futuro, ma costruirlo.

 

Dario Russo è consulente strategico in innovazione digitale, organizzazione e finanza. Co-fondatore di RG3 Digital Consulting, ha ricoperto incarichi dirigenziali presso la Banca d’Italia, dove ha guidato per anni la Direzione Regolamento Operazioni Finanziarie e Pagamenti. Esperto di trasformazione digitale e competenze emergenti, ha collaborato con università, enti regolatori e imprese, progettando modelli per l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei contesti pubblici e privati. È consulente della Banca Mondiale e della Banca Africana di Sviluppo. Ha già pubblicato diversi articoli per Harvard Business Review Italia.

[1] An Approach for Assessing the GenAI Readiness of Degree Programs in Italian Universities Or: How We Learned to Stop Worrying and Love LL Models, Dario Russo (RG3 Digital Consulting, Rome, Italy), Giorgio Alleva, Piero D. Falorsi, Giancarlo Manzi (MEMOTEF, Sapienza Università di Roma, Rome, Italy). CARMA 2025 Rome, July 2nd, 2025.

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