ECONOMIA & SOCIETÀ

C’è del metodo nelle politiche commerciali di Trump

Da Karl Marx, Albert Hirschman e altri economisti si possono trovare spunti che spiegano, anche se non giustificano, le politiche commerciali del presidente USA

Rony Hamaui

Maggio 2025

C’è del metodo nelle politiche commerciali di Trump

Scottsdale Mint - Unsplash

 

Alla fine del 1847, un gruppo di industriali inglesi organizzò a Bruxelles una conferenza sul libero scambio. L’obiettivo era promuovere l’abolizione dei dazi in Europa, seguendo l’esempio britannico delle Corn Laws, che avevano consentito di ridurre il prezzo dei generi alimentari e, di conseguenza, anche i salari, favorendo così la nascente industria manifatturiera. Il giovane Karl Marx si iscrisse come oratore, ma il Congresso fu chiuso prima che potesse intervenire. Espose allora il suo contributo, intitolato On the Question of Free Trade, presso l’Associazione Democratica di Bruxelles.

In quell’occasione, Marx riconobbe che il libero scambio svolgeva un ruolo rivoluzionario: distruggeva i residui del feudalesimo, accelerava la crescita del capitalismo e favoriva la modernizzazione economica. Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da pensatori come Montesquieu, Adam Smith e David Ricardo, esso non conduceva alla pace e al benessere universale, ma piuttosto all’aumento dello sfruttamento, della concentrazione della ricchezza e delle disuguaglianze.

Come non vedere, allora, nell’analisi di Marx, alcune delle radici di ciò che oggi definiamo “backlash of globalization”? Ovvero, quelle reazioni populiste – tanto di destra quanto di sinistra – che dalla fine del secolo scorso si sono opposte alla cosiddetta iper-globalizzazione. In questo contesto, Trump afferma di voler difendere, attraverso l’imposizione di dazi, le classi più colpite dalla globalizzazione stessa. Ignora, però, sia i grandi benefici che l’economia globale, compresa quella statunitense, ha ricavato da essa, sia l’esistenza di strumenti ben più efficaci per proteggere i settori in difficoltà.

Un secolo dopo Marx, un altro economista ebreo, Albert Hirschman – profugo in fuga dal nazismo – pubblicò un’opera allora sottovalutata: National Power and the Structure of Foreign Trade. In questo libro, Hirschman sostiene che il commercio estero non è solo una questione economica, ma anche e soprattutto politica, utilizzabile in modo strategico per ottenere vantaggi. I paesi dominanti, spesso, strutturano le loro relazioni commerciali per esercitare pressioni e creare dipendenze economiche. Hirschman osservava inoltre che i regimi autoritari sono più inclini a impiegare il commercio per fini politici – come aveva ben appreso osservando l’imposizione tedesca sui paesi dell’Europa orientale sotto Hitler.

Oggi, il pensiero di Hirschman ci aiuta a comprendere meglio l’ossessione di Trump per i dazi e il loro uso strumentale per ottenere vantaggi in settori differenti: dalla lotta all’immigrazione clandestina al contrasto al traffico di fentanyl, fino al tentativo di riportare la produzione manifatturiera negli Stati Uniti e aumentare l’occupazione interna.

Due ulteriori filoni della letteratura economica possono illuminare le attuali guerre commerciali. Il primo è rappresentato dal libro della politologa Katherine Barbieri, The Liberal Illusion: Does Trade Promote Peace? In quest’opera, viene messa in discussione la tesi liberista secondo cui il commercio internazionale porta automaticamente a benessere e pace. Al contrario, Barbieri dimostra come l’interdipendenza economica possa intensificare le rivalità, soprattutto quando le relazioni commerciali risultano squilibrate. Emblematico è il caso di Inghilterra e Germania precedentemente al primo conflitto mondiale: mentre per la Germania il commercio con l’Inghilterra era fondamentale, per quest’ultima, invece, i rapporti con Berlino erano marginali. Una dinamica simile si verificò tra Stati Uniti e Giappone negli anni ’30: il Giappone dipendeva fortemente dalle importazioni americane di materie prime essenziali come petrolio, acciaio e gomma. Quando Washington rispose all’espansionismo nipponico con sanzioni commerciali – seguite all’invasione della Manciuria e poi della Cina – il Giappone, trovandosi in una posizione vulnerabile, reagì con aggressività.

Sulla base di queste dinamiche, è facile comprendere come le attuali relazioni squilibrate tra Cina e Stati Uniti acuiscano le divergenze ideologiche, culturali e politiche.

In un’opera fondamentale, Economic Interdependence and War, Dale Copeland sostiene che ciò che conta non è solo il livello di scambio, ma le aspettative future degli Stati. Se un paese percepisce come minacciose le relazioni economiche con un altro, è più probabile che adotti un atteggiamento aggressivo. Oggi, ad esempio, è evidente come gli Stati Uniti si sentano minacciati dall’ascesa economica, tecnologica e militare della Cina, e reagiscano, per ora, attraverso la leva commerciale.

Il secondo filone riguarda la cosiddetta militarizzazione del commercio. David Baldwin, in Economic Statecraft, evidenzia come l’economia possa diventare uno strumento di politica estera, capace di esercitare pressioni simili a quelle militari o diplomatiche. Negli ultimi anni, questa forma di coercizione si è intensificata: sanzioni, embarghi, dazi e sussidi statali sono diventati strumenti frequenti. Più recentemente, anche infrastrutture cruciali come reti di comunicazione (cavi sottomarini), sistemi di pagamento (Swift) e canali di navigazione (Suez, Panama) sono stati impiegati in modo strategico.

In tale contesto, l’uso dei dazi non appare affatto sorprendente. Ciò che colpisce è l’estensione con cui Trump li ha applicati, anche contro alleati tradizionali.

In definitiva, le distorsioni ideologiche di Trump trovano, in parte, spiegazioni nella teoria economica e nella storia. Ma non per questo possiamo dormire sonni tranquilli. Come scriveva Shakespeare: “C’è del metodo in questa follia” (Amleto, Atto II, Scena 2). Speriamo soltanto che non finisca come nella tragedia del Bardo, in cui tutti muoiono.

 

Rony Hamaui è Amministratore delegato di Airosh e professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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