ECONOMIA & SOCIETÀ
Antonio Acunzo
Aprile 2025
Lo scorso 2 aprile il presidente Trump, sulla base del suo Fair and Reciprocal Plan, imponeva dazi del 20% sui prodotti provenienti dall’Unione Europea calcolati con una formula, discutibile, basata sul deficit commerciale USA con la UE ($235,6 miliardi) diviso per il valore delle merci importate dall’UE ($605,8 miliardi) e poi diviso per 2 (= 0,388 arrotondato al 39% / 2 = 20%).
Questa gabella ha messo in agitazione Governi, borse, economie e media di tutto il globo, per i devastanti effetti che i dazi infliggerebbero sull’export di tutti i Paesi, e in particolare per l’Italia che vede negli Stati Uniti il principale mercato di destinazione fuori dall’UE. A distanza di una settimana, il 10 aprile, con un’inversione di marcia, il presidente americano metteva in stand-by questi dazi per 90 giorni, pur mantenendo una tariffa del 10% in attesa di negoziazioni bilaterali. La prima mossa, in questo senso, è stata attivata dalla visita ufficiale del primo ministro italiano Giorgia Meloni alla Casa Bianca il 17 aprile, non solo per avviare il dialogo tra Italia e USA stabilendo un canale privilegiato Washington-Roma, ma anche come preludio a un confronto bilaterale UE-USA con l’obiettivo di arrivare a zero dazi tra le due sponde dell’Atlantico.
A prescindere dalle percentuali dei dazi, quali sono gli effetti sul prezzo dei prodotti italiani da esportare in USA? E quale strategia applicare per un pricing efficace così da trasformare la negatività della first impression in uno stimolo alle imprese del Made in Italy per reinterpretare il modo di fare export?
I dazi costituiscono un’imposta applicata sul prodotto importato negli Stati Uniti e rendono, quindi, il prodotto più caro per il consumatore/cliente finale. Una tassa che può essere gestita diversamente lungo la catena del valore, che definisce tutte le attività del ciclo produttivo dalla materia prima al prodotto finito. In ciascuno di questi passaggi il prodotto acquisisce un valore fino ad arrivare all’ultima fase: la definizione del prezzo di vendita.
Il possibile dazio del 20% applicato al prodotto Made in Italy non significa, dunque, che il prezzo finale del prodotto al consumatore USA comporti necessariamente un incremento sistematico del 20%. Il dazio può, infatti, essere gestito in tre modi differenti lungo la catena del valore:
1) Gestito dall’importatore o distributore USA, che può decidere di assorbire l’imposta in maniera totale o parziale e/o variare il prezzo finale modificando il proprio margine di intermediazione.
2) Gestito dall’esportatore Italiano, che può farsi carico in maniera parziale o totale dell’imposta.
3) Trasferito in toto al cliente finale con il risultato di un prezzo maggiorato.
Ovviamente la strategia di pricing dipende da quanto la domanda per quel particolare prodotto reagisce all’aumento del prezzo: e qui parliamo del concetto che in microeconomia si definisce come “elasticità della domanda rispetto al prezzo”, ossia quale sia la reattività o sensibilità della quantità domandata di un prodotto o servizio in seguito a una variazione del prezzo di quel bene. Se la domanda è anelastica o poco sensibile a incrementi di prezzo, si può valutare di trasferire l’incremento dovuto dal dazio sul prezzo finale al consumatore senza soffrire di significative variazioni sui volume di vendita.
È il caso dei prodotti nella categoria “lusso” dove si utilizzano strategie distributive, strategie di marketing, best practice per customer journey e tattiche di engagement selettive per demografiche d’acquisto e dove status, preferenze personali, lifestyle, risonanza del brand e fedeltà del cliente al brand rendono la domanda tendenzialmente anelastica.
Per contro, se la domanda è invece elastica, e quindi sensibile al prezzo, tutti i player lungo la catena del valore (produttore, importatore, distributore, retailer), ci si troverà nella posizione di dover collaborare per assorbire parzialmente o totalmente il valore del dazio per non modificare in maniera significativa il prezzo finale al consumatore e quindi privilegiare la competitività di Prezzo per evitare una riduzione, anche significativa, dei volumi di vendita a seguito di una contrazione della domanda.
E’ il caso di prodotti facilmente sostituibili perchè privi di una unicità specifica e dove il prezzo per la demografica di acquisto è l’elemento decisionale che facilita una scelta alternativa. Possono anche sussistere prodotti ai quali il cliente è fidelizzato e per questa ragione l’aumento di prezzo può modificare la frequenza d’acquisto rallentandone il consumo pur di tutelare la scelta del prodotto stesso invece che pensare a un prodotto sostitutivo. Quindi l’effetto dipende dall’elasticità della domanda, dal posizionamento del brand, dal comportamento lungo la catena del valore.
Un atteggiamento da valutare è anche quello del cliente finale che non accetta di pagare incrementi di prezzo causati dai dazi. Ed Bastian, CEO di Delta Air Lines, durante la conference call sui risultati del primo trimestre della compagnia aerea a metà aprile, ha dichiarato che rifiuterà di pagare eventuali dazi imposti sulle consegne di aeromobili nel 2025 e che Delta rinvierà la consegna di aeromobili in arrivo se le verranno addebitati dei dazi. La compagnia aerea americana, classificata dal Wall Street Journal come “Top US Airline” per il quarto anno consecutivo, ha ordini a marzo 2025 per ben 185 aerei prodotti dal consorzio europeo Airbus Industrie (116 di questi aerei sono assemblati a Tolosa in Francia e Amburgo in Germania). Airbus aveva commentato l'evolversi della situazione comunicando l’intenzione di scaricare i costi di eventuali dazi sui propri clienti, il che potrebbe potenzialmente portare a una situazione di stallo con Delta.
Questo esempio ci porta a valutare quanto un aumento di prezzo possa provocare una contrazione anche forte della domanda: è il caso di una domanda sensibile al prezzo dove può risultare strumentale valutare come assorbire anche totalmente il valore del dazio per evitare il danno in termini di perdita economica dovuta dall’azzeramento dei ricavi dovuti all’aumento del prezzo.
Ovviamente non esiste una regola applicativa “one size fits all” per tutte le categorie di prodotto, pertanto per l’azienda esportatrice risulterà essenziale conoscere il grado di elasticità della domanda riferito ai singoli prodotti in portfolio e sulla base di questa elasticità decidere quale strategia di pricing sia la più efficace basandosi su stime econometriche che visualizzano come la domanda sia cambiata in passato in funzione di variazioni del prezzo.
Quali prodotti del Made in Italy possono essere maggiormente a rischio nel pricing soggetto ai dazi USA? La premessa è che c’è una grande voglia di Italia negli Stati Uniti: Dolce Vita e Made in Italy fanno parte dello storytelling più amato dagli americani, supportato dalla elevata brand awareness che il Belpaese ha sviluppato nel corso di decenni. Ma, passando dallo storytelling che alimenta la desiderabilità di un prodotto alla crudezza dei numeri, maggiore è l’unicità di un prodotto e minore può risultare l’eventuale impatto dei dazi sul prezzo e, in attesa della negoziazione sui dazi, in una forbice che può variare dallo 0% al 20%, dobbiamo distinguere tra elasticità della domanda di breve periodo ed elasticità di lungo periodo.
Nel primo caso la minaccia di sostituzione è bassa perchè si tratta di prodotti a elevata specializzazione e di nicchia, e quindi difficilmente sostituibili nel breve. Nel secondo caso la minaccia diventa invece alta perchè le preferenze dei consumatori possono evolversi e cambiare velocemente, così come entrano in gioco nuove imprese dirette concorrenti, americane e non, e più competitive nell’offerta.
Tutti i settori del Made in Italy sono a rischio, con una maggiore esposizione per agroalimentare di fascia medio-bassa, dove la domanda è molto elastica e il prodotto ad alta sostituibilità, e per macchinari industriali (settore che nel 2024 ha visto negli USA il primo mercato di sbocco a fronte di flessioni su Germania e Francia), meno sostituibili nel breve, ma che nel lungo potrebbero perdere quote a favore della concorrenza. Esempi pratici: un vino di fascia alta come Barolo o Brunello può permettersi di scaricare il dazio sul cliente finale, grazie alla forte fedeltà al brand e alla percezione di esclusività. Mentre una macchina da caffè standard o un prodotto mass market sono facilmente sostituibili e quindi serve una strategia distributiva condivisa per evitare riduzioni sensibili dei volumi di export.
Il prezzo non è quindi l’unica strategia da mettere in atto. Quindi cosa devono fare ora le aziende italiane? Suggeriamo una gamma di quattro possibilità:
- Ridisegnare la strategia di export, da passivo ad attivo, e trasformarsi in brand attivi per un export capace di generare domanda e non solo soddisfarla passivamente
- Analizzare l’elasticità della domanda per i propri prodotti e simulare scenari di prezzo e margini netti per ogni livello di dazio (0%, 10%, 20%)
- Ridefinire il posizionamento di valore, aumentando il valore percepito sul proprio prodotto invece che operare solo sul prezzo, investendo su brand building (a maggior ragione se prodotto e brand non godono di riconoscibilità), su packaging premium, logiche “limited edition”, comunicazione focalizzata su lifestyle, sostenibilità, artigianalità, e su tutti quegli elementi di unique selling proposition, che possono distinguere il prodotto rispetto alla concorrenza
- Investire direttamente nel mercato USA in relazioni B2B e customer engagement per generare risultati.
Antonio Acunzo è CEO di MTW GROUP USA, società di advisory di international business con sede a Miami in Florida che dal 2005 offre consulenza manageriale strategica per l’internazionalizzazione nel mercato USA, integrata con servizi di Marketing Communication, Brand Marketing, Business Development e Corporate alle aziende PMI e Mid-Market del Made-in-Italy che guardano al mercato U.S.A. per la propria crescita ed espansione attraverso piani di internazionalizzazione strutturata come Joint-Venture, M&A, FDI e piani di Direct Export (antonio.acunzo@mtw.group, www.mtw.group).