DIVERSITÀ E INCLUSIONE

Cosa viene dopo la DEI

Come un nuovo quadro costruito attorno a equità, accesso, inclusione e rappresentanza può avere successo dove le precedenti politiche hanno fallito.

Lily Zheng

Aprile 2025

Cosa viene dopo la DEI

Illustration by Michelle D’Urbano

LA NECESSITÀ DI LUOGHI DI LAVORO più inclusivi per tutti è innegabile: il 91% dei lavoratori ha subito discriminazioni legate a etnia, sesso, disabilità, età o corporatura e il 94% dei lavoratori ha a cuore il senso di appartenenza al lavoro. Ma la retorica anti-DEI e le reazioni negative hanno fatto crollare il sostegno alla diversità, all’equità e all’inclusione (DEI) a un minimo di solo il 52% dei lavoratori americani.

La risposta predominante a questa reazione tra i professionisti con cui ho parlato è stata quella di continuare in gran parte con lo status quo, riformulare il linguaggio secondo necessità e aderire alle iniziative e ai programmi esistenti sotto l’ombrello DEI che rimangono legali fino a quando non saranno costretti a fare altrimenti. Una parte minore di professionisti, o datori di lavoro, stanno valutando se lo stesso approccio DEI abbia margini di miglioramento.

In questo momento, i leader e i professionisti che hanno investito nella creazione di luoghi di lavoro e società più sani per tutti hanno un’opportunità unica di reinventare questo approccio, non solo per adattarsi a un nuovo clima sociopolitico, ma anche per abbandonare pratiche che hanno fatto il loro tempo e concentrare i nostri sforzi su ciò che funziona.

Decenni di ricerca mostrano chiari problemi con lo status quo DEI. Nonostante vengano spesso realizzati, i corsi di formazione DEI di rado riescono a ridurre o cambiare i pregiudizi. Le strategie più diffuse per comunicare il valore della DEI possono paradossalmente danneggiare le comunità emarginate e al contempo ridurre il sostegno della leadership alla DEI. Le iniziative comuni volte a creare luoghi di lavoro migliori per tutti rischiano invece  di attivare una reazione negativa, aumentare il burnout e non riuscire a migliorare i risultati per i gruppi svantaggiati.

La DEI ha bisogno di un reset. Le persone vogliono luoghi di lavoro più diversificati, equi e inclusivi, ma le iniziative e gli approcci abituali alla DEI tradizionale sono ben lungi dall’essere l’unico modo per raggiungerli.

Attingendo alla ricerca, alle conversazioni con i colleghi e al mio lavoro nell’ultimo decennio come professionista DEI, ho sviluppato un sostituto che chiamo il quadro FAIR. È costruito intorno ai risultati fondamentali di equità, accesso, inclusione e rappresentanza (fairness, access, inclusion, representation, FAIR) che il DEI avrebbe dovuto raggiungere per tutti, e offre quattro principi per guidare questo lavoro.

 

Come si presenta un modello migliore?

Come ho scritto su HBR l’anno scorso, la strategia DEI tradizionale adottata da molte organizzazioni, caratterizzata da una comunicazione ampiamente gergale, una programmazione a compartimenti stagni che si basa su volontari spesso esausti, workshop una tantum che utilizzano tattiche obsolete come colpevolizzazione e vergogna, e poca misurazione o responsabilità, spesso ha creato nella migliore delle ipotesi l’apparenza di progresso e nel peggiore dei casi una sostanziale reazione negativa.

I leader in prima linea nel ripensare questo lavoro stanno utilizzando i dati disponibili allo scopo di progettare interventi che migliorino in modo misurabile i risultati per tutti. Applicano un approccio di gestione del cambiamento per creare un impatto su larga scala, migliorando le politiche del personale, i processi di assunzione, promozione e feedback, gli incentivi alla leadership, la cultura e le norme organizzative, piuttosto che cercare ripetutamente di “creare consapevolezza” senza risultati conseguenti. Costruiscono coalizioni per coinvolgere tutti sul posto di lavoro come parte della soluzione, piuttosto che cercare di attribuire i problemi a un gruppo con una specifica identità sociale piuttosto che a un altro. E comunicano in modo da disinnescare le reazioni difensive e minacciose, definendo i benefici di questo lavoro per tutti, piuttosto che ricorrere a una retorica che infiamma gli animi e crea polarizzazione tra gruppi diversi.

“Sono stata incoraggiata dai dati che dimostrano che, se si progettano processi migliori, non è sempre necessario coinvolgere tutti”, ha detto Ruchika T. Malhotra, autrice di Inclusion on Purpose. “Le misure cambiano molto spesso come risultato di processi progettati in modo specifico. Ad esempio, progettare un processo di assunzione più equo va effettivamente a vantaggio di persone di ogni tipo. Ma se le persone sono contrarie a usare il termine “equo”, ciò non dovrebbe impedire ai leader di portare avanti il progetto per ottenere migliori risultati di assunzione utilizzando gli stessi principi”.

Questo sviluppo nel campo della DEI è stato una rivoluzione lenta a cui si sono opposti molti leader e professionisti che stavano più comodi con lo status quo. Ora, la DEI deve adattarsi in questo modo se vuole sopravvivere. Invece dei metodi performativi, incentrati sull’individuo, isolati e a somma zero dell’attuale approccio tradizionale, il lavoro DEI deve evolversi per diventare:

Basato sui risultati, concentrandosi su risultati misurabili come la parità retributiva, la sicurezza fisica e psicologica, il benessere e i tassi di promozione, piuttosto che realizzare pedissequamente (e prevedere un budget solo per) una formazione una tantum, pubblicare post sui social media o adottare comportamenti che vogliono segnalare il loro impegno senza dimostrare risultati. Piuttosto che valutare un datore di lavoro in base al fatto che si sia impegnato a progredire, un approccio basato sui risultati ci impone di valutare un datore di lavoro in base al fatto che abbia raggiunto un progresso misurabile.

Focalizzato sui sistemi, utilizzando la gestione del cambiamento per ottenere situazioni più sane sul posto di lavoro – politiche, processi, pratiche e norme – piuttosto che un approccio di “autoeducazione”. Ad esempio, invece di chiedere a ogni persona di allineare le proprie convinzioni individuali a uno standard arbitrario di “inclusione”, un approccio incentrato sui sistemi mira a raggiungere l’inclusione su larga scala premiando i leader inclusivi, creando processi inclusivi sul posto di lavoro e normalizzando le aspettative di un comportamento inclusivo.

Orientato a creare una coalizione, si concentra sul coinvolgimento di un’ampia gamma di persone che possono trarre beneficio da un ambiente di lavoro più sano ed equo, piuttosto che limitare la partecipazione in base all’identità o all’ideologia. Invece di delegare la responsabilità di un problema o l’onere della sua risoluzione a piccoli gruppi di dipendenti, un approccio basato sulla creazione di una coalizione mira a coinvolgere tutti nell’assumersi la responsabilità e nel lavorare insieme per trovare soluzioni che funzionino per tutti, anche se non tutti condividono le stesse convinzioni nel merito.

Win-Win, concentrandosi non solo sulla creazione di risultati migliori per tutti, ma anche sulla comunicazione dei benefici del progresso, anche se all’inizio potrebbero sembrare limitati o circoscritti. Un approccio win-win mira esplicitamente a respingere l’idea che il progresso possa essere a somma zero: ad esempio, invece di presumere che solo le donne saranno interessate a sfidare i pregiudizi di genere, un approccio win-win potrebbe coinvolgere persone di tutti i generi sul presupposto che sfidare i pregiudizi di genere sia un vantaggio per tutti.

 

Come può FAIR avere successo dove DEI ha fallito?

Il quadro FAIR è un modello per costruire organizzazioni incentrate sulle persone intorno ai principi menzionati. I quattro risultati di FAIR sono:

 

Equità

L’equità si ha quando tutte le persone sono messe in condizione di avere successo e sono protette da fenomeni di discriminazione. Date le diverse identità, esperienze ed esigenze delle persone, l’equità non si ottiene semplicemente trattando tutti esattamente allo stesso modo, ma costruendo politiche, processi e pratiche sul posto di lavoro per ostacolare i pregiudizi, attribuire le responsabilità e soddisfare una serie di esigenze, garantendo al contempo lo stesso elevato standard di esperienza per tutti.

L’equità si misura osservando i principali punti di contatto dell’interazione di una persona con il proprio ambiente. Sul posto di lavoro, ciò significa esaminare come le esperienze delle persone differiscono per quanto riguarda la retribuzione, la promozione, le risorse, le opportunità, la disciplina, l’apprendimento e il feedback. Se riscontriamo differenze significative nell’esperienza – ad esempio, i lavoratori più anziani riferiscono costantemente di essere pagati meno dei loro colleghi più giovani che svolgono le stesse mansioni; oppure i candidati che non hanno un background universitario di alto livello vengono costantemente scartati per una promozione rispetto ai loro colleghi con la stessa esperienza che hanno studiato in un’università prestigiosa; oppure, i lavoratori neurodivergenti sono spinti verso una serie più limitata di percorsi di carriera rispetto ai loro colleghi neurotipici – possiamo indagare su potenziali ingiustizie e apportare correzioni a politiche, processi o pratiche per risolvere il problema.

In un’organizzazione con cui ho lavorato, un dirigente senior si trovava a dover gestire una situazione in cui una manager a lui subordinata era stata accusata di promuovere i membri del suo team per motivi personali piuttosto che di preparazione. Invece di puntare il dito contro questa manager e invocare un corso di formazione per correggerne i pregiudizi, ho collaborato con l’organizzazione per proteggere meglio le persone dalle discriminazioni, formalizzando il processo di promozione: richiedendo che i criteri di promozione siano trasparenti, chiarendo tali criteri per concentrarsi su prestazioni dimostrabili piuttosto che sul potenziale presunto, standardizzando il processo di valutazione con schede ad hoc e migliorando le competenze dei decisori per utilizzare questo processo con sicurezza.

Migliorare i sistemi piuttosto che “correggere” i singoli individui richiede una reale gestione del cambiamento, non un intervento una tantum. Fortunatamente, questo approccio può essere fortemente consonante con ciò che i lavoratori già apprezzano. Tutti vogliono un posto di lavoro scevro da favoritismi e discriminazioni, dove ognuno abbia il supporto di cui ha bisogno per fare del proprio meglio e sia ricompensato equamente per i propri sforzi. Inquadrare il lavoro FAIR in questi termini può rendere evidente che un ambiente di lavoro più sano è un bene per tutti e garantire l’ampio sostegno necessario per migliorare lo status quo.

 

Accesso

L’accesso si realizza quando tutte le persone possono partecipare pienamente a un prodotto, servizio, esperienza o ambiente fisico.

Sebbene sia strettamente correlato all’accessibilità, l’accesso non riguarda solo le disabilità. Per ottenere l’accesso è necessario rimuovere le barriere alla partecipazione e progettare prodotti, servizi, esperienze e ambienti che funzionino per tutti. Ad esempio, se ai lavoratori in prima linea non vengono forniti i mezzi o il tempo per partecipare a una grande celebrazione virtuale organizzata dai colleghi della sede centrale, l’evento non è accessibile. Se una riunione generale è programmata in una festività cristiana, ebraica o musulmana, la riunione non è accessibile.

Per misurare l’accessibilità, osserviamo la partecipazione e il coinvolgimento delle persone nei vari aspetti del loro ambiente. Possiamo utilizzare parametri come la partecipazione, l’utilizzo o il tasso di completamento e raccogliere dati aggiuntivi attraverso strumenti specifici o il feedback degli utenti. Se riscontriamo differenze significative nell’esperienza, ad esempio, i lavoratori con figli non partecipano a un evento di networking mensile perché si svolge durante le ore tipiche in cui bisogna andare a prendere i bambini all’asilo, possiamo indagare sulla potenziale inaccessibilità e apportare correzioni al prodotto, al servizio, all’esperienza o all’ambiente per risolvere il problema.

Per affrontare il problema dell’accessibilità, le organizzazioni dovrebbero adottare nuove pratiche standard nella progettazione e nello sviluppo. Troppo spesso i leader trattano la mancanza di accessibilità come un problema isolato da risolvere caso per caso e approvano soluzioni approssimative che non risolvono la causa principale dell’inaccessibilità. Immaginate un responsabile di un edificio che, invece di installare una rampa per rendere accessibile un ingresso, incarica un membro del personale di spingere manualmente su per le scale gli utenti in sedia a rotelle. Poiché le esigenze degli utenti al di fuori della “norma” non sono rese parte standard del processo di progettazione o sviluppo, prodotti, servizi, esperienze e ambienti finiscono per contenere gli stessi errori più e più volte – un fenomeno noto come debito di accessibilità.

Per integrare con successo il contributo e il feedback degli utenti nei cicli di sviluppo, i professionisti devono sfidare le convinzioni di molte persone secondo cui dare priorità all’accessibilità è costoso e richiede tempo (è molto meno che il debito di accessibilità) e dimostrare che è possibile farlo. Ampliare l’accesso a coloro che sono al di fuori dello status quo può portare a vantaggi sorprendenti per tutti, anche per coloro che potrebbero non pensare di avere esigenze di accesso, costruisce organizzazioni più resilienti e contribuisce all’indipendenza, alla dignità e all’autonomia di tutte le persone.

 

Inclusione

L’inclusione si ha quando tutte le persone si sentono rispettate, valorizzate e al sicuro per quello che sono.

L’inclusione consiste nel confrontarsi in modo ponderato con ciò che rende le persone diverse, assicurando che, data la diversità delle identità, delle esperienze, delle convinzioni e delle prospettive delle persone, tutti possano sentirsi rispettati, valorizzati e al sicuro. Se la maggior parte dei lavoratori a distanza si sente valorizzata dalla dirigenza tanto quanto i colleghi che lavorano principalmente di persona, si parla di inclusione a distanza/di persona. Se il luogo di lavoro è un luogo fisicamente sicuro in cui lavorare e un luogo psicologicamente sicuro in cui condividere feedback critici, vivere conflitti produttivi o assumersi rischi per i lavoratori di tutti i sessi, allora si tratta di inclusione di genere.

Per misurare l’inclusione, possiamo condurre sondaggi e valutazioni sui sentimenti e sulle esperienze delle persone all’interno di un ambiente. Possiamo chiedere informazioni sulle loro esperienze in termini di sicurezza fisica e psicologica, sul loro comfort nel segnalare e cercare supporto in caso di discriminazione e sui loro sentimenti di rispetto o mancanza di rispetto sul lavoro. Se riscontriamo differenze significative nell’esperienza, ad esempio se i lavoratori LGBTQ+ riferiscono di aver subito molestie fisiche più frequentemente dei loro colleghi non LGBTQ+, possiamo indagare su potenziali esclusioni, offrire feedback e responsabilità alle persone coinvolte e apportare correzioni all’ambiente per risolvere il problema.

L’inclusione è in definitiva una questione di norme e cultura sul posto di lavoro. I luoghi di lavoro spesso affrontano i temi dell’inclusione attraverso la programmazione di eventi (si pensi ai “pranzi di studio” o alle celebrazioni del patrimonio culturale), ma questi tentativi superficiali di celebrazione o educazione raramente cambiano il linguaggio o il comportamento radicati nello status quo. Un immigrato che subisce minacce xenofobe sul lavoro è maggiormente supportato da un protocollo standard che soddisfi le sue esigenze di sicurezza e affronti alla radice il comportamento minaccioso, non chiedendogli di partecipare a una “celebrazione della diversità culturale”. Una persona introversa che viene spesso interrotta durante le riunioni è supportata più direttamente da ordini del giorno inviati prima di ogni riunione e da manager con capacità di facilitazione delle riunioni stesse, non da un evento di 50 minuti a pranzo a cui partecipano 10 persone sul “potere degli introversi”.

Per cambiare realmente la cultura, ovvero l’insieme di valori, aspettative e convinzioni condivise su come le persone interagiscono tra loro, i leader e i professionisti devono fare di più che condividere liste ambiziose di “cose da fare e non fare” legate a specifici gruppi di identità. Lo storytelling, l’autorità formale e gli incentivi sociali sono tutti strumenti più efficaci per spostare il comportamento lontano dalle norme indesiderate e verso quelle desiderate. Una volta ho consigliato a un leader che voleva usare la sua autorità per sostituire una norma di riunione del tipo “chi grida più forte vince” con un periodo di silenzio di cinque minuti prima di ogni discussione per consentire a tutti di scrivere i propri punti di discussione. Questa semplice pratica, comunicata chiaramente e sostenuta in modo coerente, ha contribuito a modificare le norme implicite all’interno del team. Premiare e celebrare coloro che agiscono in modo inclusivo, stabilire aspettative per una comunicazione e un comportamento inclusivi e costruire un’identità di gruppo condivisa basata sul rispetto e sull’inclusione sono strategie efficaci per migliorare l’inclusione che qualsiasi leader può utilizzare.

 

Rappresentanza

La rappresentanza funziona quando tutte le persone sentono che i loro bisogni sono difesi da coloro che le rappresentano.

La rappresentanza non è semplice come spuntare le caselle in un sondaggio. Richiede processi decisionali partecipativi, comunicazioni frequenti e trasparenti tra i leader e i partner chiave, e un’elevata fiducia nella leadership da parte dei molti gruppi diversi che questi rappresentano, costruita sulla base di una comprovata responsabilità. Se i leader promettono costantemente che ascolteranno i lavoratori che subiscono l’esclusione, ma poi si rifiutano di incontrarli, questi lavoratori non sono rappresentati, anche se tecnicamente hanno un “rappresentante” designato nel team di leadership. Se un team di prodotto mira a realizzare prodotti “per tutti”, ma non consulta o include le prospettive di un pubblico chiave nel processo di progettazione, quel pubblico non è rappresentato, anche se un membro del team di prodotto condivide un’identità con quel pubblico.

Per misurare la rappresentanza, possiamo raccogliere dati auto-riferiti da sondaggi e valutazioni sui sentimenti delle persone riguardo alla leadership, all’influenza, alla voce e alla fiducia. Possiamo chiedere loro quanto si fidano della leadership, in che misura sentono che le loro opinioni sono richieste e apprezzate e in che misura i responsabili delle decisioni tengono conto delle loro esigenze. Se riscontriamo differenze significative nell’esperienza, ad esempio se i lavoratori di colore riferiscono di sentirsi più ignorati ed esclusi dalle decisioni che li riguardano rispetto ad altri colleghi, possiamo indagare sulla potenziale mancanza di rappresentanza e apportare correzioni alla comunicazione, al comportamento e ai processi decisionali per risolvere il problema.

La rappresentanza è una questione di fiducia, non di simbolismo. Anche se le persone possono essere leggermente più inclini a fidarsi di coloro con cui condividono l’identità, la fiducia dipende più dal comportamento e dai precedenti di chi sta al potere. È possibile che un gruppo dirigente composto interamente da donne non sia rappresentativo delle donne se nessuna delle leader si sforza di comprendere e sostenere le esigenze delle donne che presumibilmente rappresentano. D’altro canto, è possibile che un team di prodotto senza esperienza diretta di vita nelle comunità rurali possa essere molto rappresentativo delle comunità rurali grazie a una comunicazione frequente, a un’attività di sensibilizzazione attiva e a sforzi continui per comprendere e sostenere le esigenze delle comunità rurali stesse.

Concentrarsi sulla rappresentanza come questione di fiducia piuttosto che di identità ci permette di evitare soluzioni a somma zero che possono derivare da eccessiva attenzione ai dati demografici. Supponendo che non vi siano cambiamenti nelle dimensioni del team, i gruppi composti solo da uomini bianchi devono necessariamente arrivare ad avere meno uomini bianchi se vogliono guadagnare donne o persone di colore. Questo approccio attiva istantaneamente i timori che gli sforzi per aumentare la diversità possano provocare “una perdita di posti di lavoro e di opportunità per gli uomini bianchi” e per altri membri del gruppo maggioritario e riduce la possibilità di un dialogo produttivo. Se i professionisti possono invece avviare una conversazione su quanto i diversi gruppi si fidino e si sentano ascoltati dalla leadership, prendendo sul serio coloro che non si sentono rappresentati indipendentemente dalla loro identità o provenienza, possiamo evitare le mentalità a somma zero e il contraccolpo che generano.

 

La rappresentanza è una questione di fiducia, non di simbolismo.

Questo significa che i dati statistici non contano? Assolutamente no, ma la parità demografica (avere una forza lavoro che rispecchi la composizione statistica dei clienti o della società) è una questione di equità, non di rappresentanza. Finché i leader si impegneranno a rendere più equi i sistemi sul posto di lavoro, come le assunzioni, le promozioni e il feedback, il cambiamento demografico sarà un indicatore ritardato del progresso. Nel frattempo, i leader di oggi hanno obiettivi realizzabili verso cui tendere se vogliono diventare più rappresentativi delle persone che servono, indipendentemente dalle identità che questi leader possiedono.

Che i leader e i professionisti scelgano o meno di adottare la combinazione FAIR, resta che molti dei leader DEI con cui ho parlato avvertono l’urgente necessità di far evolvere l’orientamento DEI in atto. “Il DEI è stato fantastico, ha avuto una sua realtà. Dobbiamo abituarci al fatto che le cose evolvono”, ha esortato Amber Cabral, fondatrice della società di sviluppo della leadership Cabral Co. “Non dobbiamo essere troppo legati a un certo modo di usare le parole e, allo stesso tempo, non tenere abbastanza conto di come si manifestano in realtà”.

“Un aspetto mancante nel lavoro sul DEI era accettare che comporta cambiamenti”, ha detto l’esperta di comunicazione Kim Clark. “Il DEI tendeva a rimanere al livello più alto delle organizzazioni, forse spesso proposto solo come una campagna d’immagine del brand, piuttosto che portare a una responsabilizzazione di ogni reparto, ogni team e ogni dipendente. Questo ha portato a comunicazioni performative che hanno causato più danni che benefici”.

“Vedo un’opportunità per andare oltre il superficiale, performativo e simbolico”, ha detto Zach Nunn, CEO e fondatore di Living Corporate, una società di gestione delle esperienze. “Questo è il futuro; in un certo senso, e il periodo critico che stiamo vivendo può essere anche una buona cosa”.

“FAIR affronta la realtà che l’attuale approccio sul posto di lavoro ha deluso tutti in modi diversi”, ha detto W. Brad Johnson, PhD, professore presso l’Accademia Navale degli Stati Uniti. “Ad esempio, sempre più uomini che diventano padri vogliono condividere in modo più equo la cura dei figli, ma la fossilizzazione delle abitudini sul posto di lavoro potrebbe non garantire loro un accesso equo al congedo parentale e al lavoro flessibile. FAIR creerebbe condizioni di parità per uomini, donne, madri e padri in quest’ambito”.

 

MENTRE LA VOSTRA ORGANIZZAZIONE deve riuscire a navigare tra le diffuse reazioni negative alla DEI, lanciate a voi stessi e ai vostri leader la sfida di guardare oltre lo status quo della DEI. Assicuratevi che, man mano che il vostro linguaggio, le vostre iniziative e le vostre strategie evolvono, al fondo ci siano i risultati piuttosto che le intenzioni, azioni di superamento sistematico dei pregiudizi piuttosto che misure per “correggere” gli individui, la creazione di ampie coalizioni piuttosto che di cricche polarizzate e la comunicazione del valore win-win di questo nuovo approccio piuttosto che la resa a narrazioni a somma zero. Assicuratevi che, qualunque sia il nome che si dà al lavoro, state costruendo un’organizzazione per il domani che sia migliore rispetto a quella di oggi per tutti coloro che ne fanno parte.

 

Lily Zheng è un’esperta di strategie e consulente che lavora con i leader per costruire organizzazioni eque, accessibili, inclusive e rappresentative. È autrice del libro di prossima pubblicazione Fixing Fairness: 4 Tenets to Transform Diversity Backlash into Progress for All.

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