SELF MANAGEMENT
Roberto Caire
Marzo 2025
Thao Lee - Unsplash
A prima vista, pare che arti marziali e mondo del business non possano essere realtà più lontane. Le prime affondano le loro radici nel lontano oriente. Sono ricche di storia, tradizioni, filosofia e miti che non appartengono al mondo occidentale. Lavorano sulle tecniche di combattimento ma, contemporaneamente, anche sull’interiorità e sulla ricerca continua di sé. Il secondo è frenetico, spesso spregiudicato, ossessionato dalla tecnologia e votato al cambiamento continuo. Come afferma anche Pierre Delorme, consulente aziendale francese ed esperto kendoka, viene da pensare che “essere capaci di colpire con la spada o rovesciare un avversario con una proiezione imparabile sono di ben poca utilità nel mondo degli affari”.
“I’ve learned more about leadership from martial arts than I have from my formal education” (Dan Schulman)
Provando ad analizzare la cosa in modo meno ingenuo e superficiale, tuttavia, le arti marziali possono fornire numerose suggestioni a chi ha responsabilità manageriali o imprenditoriali. Non è certo un caso, infatti, che il Libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi – forse il più leggendario samurai giapponese, vissuto tra il XVI e il XVII secolo – sia un testo letto avidamente da molti businessmen, non solo giapponesi.
Anche al più sprovveduto le arti marziali appaiono come discipline legate al combattimento. Su questo non c’è alcun dubbio. Evocano il confronto con l’avversario, la sfida, la competizione. E, in effetti, al lavoro e nella vita privata, ci confrontiamo continuamente con l’altro, accettiamo e a nostra volta lanciamo sfide, e spesso siamo in competizione per cercare di vincere. Le arti marziali possono fornire ai manager (e non solo a loro) insegnamenti per sviluppare doti importanti quali coraggio, determinazione e lucidità. Coraggio per fronteggiare le difficoltà a viso aperto, senza paura o remore. Determinazione per confrontarsi con gli ostacoli e continuare a lottare senza farsi abbattere dalle eventuali sconfitte. Lucidità per lottare senza lasciarsi trascinare dalla foga dello scontro e perdere così di vista l’obiettivo finale.
Competizioni. Sfide. Scontri. Alcuni manager li amano. Altri, invece, li temono. In realtà, entrambi questi atteggiamenti sono errati. Vittoria e sconfitta – come ci ricorda Rudyard Kipling in Se – sono infatti due etichette, due facce della stessa medaglia (la competizione). Le arti marziali insegnano a non temere le sfide, a lottare con efficacia ma, contemporaneamente, a non desiderare di farlo. Il conflitto in azienda è una cosa naturale. Non è patologica. Non si deve temerlo, ma nemmeno volerlo a tutti i costi. Si deve solo sapere come affrontarlo con “presenza” mentale ed efficacia, se si è costretti a “incrociare le lame”.
Le arti marziali, quindi, forniscono un mindset efficace per saper fronteggiare le difficoltà. E poi? Il secondo spunto di riflessione per il business odierno riguarda le strategie di difesa proprie di alcune arti marziali.
Immaginiamo una elegante meeting room. Fuori vetro e acciaio lucente. Dentro, poltrone ergonomiche in pelle e tavolo centrale in mogano. Due manager si fronteggiano nervosamente durante una riunione, quasi fossero due pistoleri all’Ok Corral. Il conflitto si accende. Volano parole grosse e più uno urla, più l’altro alza la voce per sovrastarlo. Suona familiare, vero?
In molte forme di combattimento occidentale, come per esempio il pugilato e la lotta, l’approccio è quello di resistere, di opporre forza a forza, di rispondere fuoco al fuoco. Lo stesso può accadere, come abbiamo visto, anche in azienda. Nelle arti marziali cinesi o giapponesi, invece, le cose stanno diversamente. Molto spesso la strategia adottata è quella di non opporsi all’avversario, di utilizzare la sua stessa forza, di “cedere” inizialmente per poi re-dirigere il suo attacco e la sua forza contro di lui.
“Non combattere con la forza, assorbila e falla scorrere, usala” (Yip Man)
Un praticante di Tai Chi Chuan o di Aikido non utilizza la propria forza muscolare per combattere il suo avversario. Al contrario, cercherà di utilizzare sensibilità, flessibilità, calma interiore e tempismo per intuire l’azione aggressiva, “unirsi” ad essa e infine trasformarla. Proiettando via l’opponente o immobilizzandolo a terra. Questo è il motivo per cui si dice che nel Tai Chi Chuan il morbido vince sul duro, che la debolezza ha la meglio sulla forza, che si possono “spostare mille libbre con una forza di quattro once”. Usare, invece, strategie relazionali simmetriche, del tipo Yang/Yang (più tu fai/aggredisci/attacchi, più io faccio/aggredisco/attacco) ci farà impantanare in un conflitto senza fine o, peggio, rischierà di innescare un’escalation distruttiva. Se in un primo momento non ci si oppone all’attacco dell’altro, grazie all’ascolto e al conseguente “svuotamento” dell’energia aggressiva, diventa più facile trasformare lo scontro in un confronto più sereno e collaborativo. E, quindi, produttivo.
Una terza suggestione che le arti marziali possono dare riguarda il concetto di connessione mente-corpo. Nel mondo occidentale prevale il concetto di separazione. Nelle fabbriche ispirate dai concetti e dai metodi taylor-fordisti, esisteva (e per molti versi esiste ancora) una netta separazione tra white collar, impiegati e manager che lavorano utilizzando la loro testa, e blue collar, operai che fanno quasi esclusivamente un lavoro manuale. “Lavora! Non ti pago certo per pensare!” si sente dire spesso in molte fabbriche e officine agli operai. Qualche volta anche agli impiegati. Questa separazione balza prepotentemente all’occhio quando si osservano i “professionisti dell’intelletto” – professori universitari, ricercatori, giornalisti, politici – e i “professionisti del corpo” – sportivi e atleti. Come ha osservato giustamente Maurice Béjart, il grande danzatore e coreografo francese scomparso nel 2007, i grandi “cervelli” dell’Occidente «sono notevolmente a disagio con il loro corpo. Fanno cadere gli oggetti, non occupano armoniosamente lo spazio, il loro corpo non ha mai l’intelligenza del loro cervello!».
E che dire delle interviste agli atleti all’indomani di una vittoria o dell’ottenimento di un record? Si rimane a volte sconcertati dalla vaghezza del pensiero che alcuni dimostrano durante l’intervista o, al limite, della pochezza con cui riescono a esprimerlo con il loro linguaggio essenziale. Esistono eccezioni in entrambi i casi, ovviamente.
Un praticante di Judo, di WuShu o di Kendo tanto per fare degli esempi, invece, sa che deve svilupparsi in modo integrale. Deve, cioè, coltivare la sua tecnica marziale, ma anche la sua evoluzione spirituale. Deve affinare le tecniche di proiezione a terra dell’avversario e, nello stesso tempo, aumentare la sua consapevolezza interiore. Deve lavorare sul suo fisico e, contemporaneamente, seguire un severo codice di condotta morale che disciplina e orienta il suo atteggiamento mentale.
Che ci piaccia o no, il nostro corpo ci condiziona la vita, nel bene come nel male. Uno stato mentale efficace – cioè ricettivo, reattivo e rilassato – si associa ad uno stato del corpo fluido – cioè elastico e privo di contratture e rigidità. Possiamo guadagnare in efficacia operativa e in creatività se il nostro corpo si orienta verso “stati positivi”. Non si tratta del semplice, ancorché veritiero, “mens sana in corpore sano”, ma di qualcosa di più. Si tratta di connessione. Connessione tra la sfera dell’azione e quella del pensiero, certo, ma anche di connessione con sé stessi. E tra sé e il proprio team. E tra una comunità e il suo ambiente.
Un quarto spunto, infine, risiede nei concetti di maestria, di perfezione di eccellenza. Che si tratti dell’arte di maneggiar la spada per un samurai, o di servire il tè per un maestro di cerimonia del tè, il “cuore” della pratica è sostanzialmente lo stesso. Quale? Impegnarsi ogni giorno per raggiungere la padronanza assoluta dell’arte e, con essa, l’elevazione del proprio spirito. Ovviamente, il mondo produttivo non poteva rimanere indifferente a questa filosofia. “Giocando in casa”, l’industria nipponica l’ha incorporata nei suoi processi manifatturieri (soprattutto nell’automotive) tanto che Masaaki Imai ha coniato il termine kaizen (che si può tradurre con “miglioramento continuo”) per descrivere la filosofia di business che supportava i successi dell'industria nipponica negli anni ’80.
“Le arti marziali offrono una metafora assolutamente azzeccata per l’importanza che la maestria riveste in Toyota” (Gary Convis e Jeffrey Liker)
Comunemente si pensa, ad esempio, che ottenere la cintura nera sia un traguardo importante che testimonia della padronanza dell’Arte Marziale. Macché. Possedere la cintura nera, infatti, significa semplicemente conoscere le tecniche di base. David Baum e Jim Hassinger ne L’arte dell’aikido a uso dei manager sostengono che «alcuni tra i più grandi maestri del mondo [di aikido] spiegano che dopo aver praticato una determinata tecnica per trent’anni, hanno la sensazione di cominciare solo allora a conoscerla».
Il lungo, paziente, e duro lavoro necessario per eseguire con estrema precisione tanto i kata del karate, che la forma 103 del Tai Chi Chuan Stile Yang – tanto per fare degli esempi tra i molti – può rappresentare metaforicamente molto bene il difficile ma necessario cammino che tanto le persone quanto le imprese devono percorrere se vogliono ambire, raggiungere e mantenere la leadership e l’eccellenza nel proprio campo. L’obiettivo di un praticante di arti marziali supera il semplice (si fa per dire, ovviamente!) impadronirsi della tecnica. Riguarda migliorare ogni santo giorno (ecco il kaizen) se stessi come persone. Può letteralmente volerci una vita intera. Un orizzonte temporale sconfinato e – purtroppo – imparagonabile a quello che si pongono molti manager, imprenditori e politici. Ossessionati dal raggiungere obiettivi su obiettivi (spesso a breve o brevissimo termine) da dimenticare la via, il percorso che li ha portati a raggiungere quella determinata meta così importante per loro.
Quando Siddharta si recò dal mercante Kamaswami per ottenere un impiego non sapeva nulla sul commercio. Era, infatti, il figlio di un ricco brahmino, andato via dalla casa paterna per aggregarsi ai Samana, asceti girovaghi. Da loro aveva imparato tre cose: a pensare, ad aspettare, a digiunare. Competenze, però, di cui il ricco mercante non sapeva che farsene, tanto che gli chiese: «E a che serve? Per esempio, il digiunare: a che serve?». Siddharta rispose: «È un’ottima cosa, signore. Quando un uomo non ha niente da mangiare, digiunare è la più bella cosa che si possa fare. Se, per esempio, Siddharta non avesse imparato a digiunare, oggi stesso dovrebbe assumere un qualche impiego, da te o in qualunque altro posto, perché la fame ve lo costringerebbe. Ma invece Siddharta può aspettare tranquillo, non conosce impazienza, non conosce miseria, può lasciarsi a lungo assediare dalla fame e ridersene. A questo, signore, serve il digiuno».
Per le arti marziali il discorso è molto simile. Apparentemente, non servono a molto nella “vita reale” – cioè fuori dal dojo (o dalla palestra) – se non per difesa personale. Invece servono, e a molto più che a combattere. Come infatti sosteneva Robert Foster Bennet, “martial arts is not about fighting; it’s about building character”. E ricordiamoci che le persone – con le loro competenze, il loro character – costituiscono una fetta importante del patrimonio di risorse intangibili posseduto dalle imprese. Patrimonio che, ad oggi, sembra essere l’unico reale vantaggio competitivo in uno scenario sempre più globale, mutevole e complesso.
Roberto Caire è coach, consulente HR e formatore specializzato in metodologie formative esperienziali e metaforiche. È anche un appassionato praticante di arti marziali.
David Baum, Jim Hassinger (2010), L’arte dell’aikido a uso dei manager. Leadership senza sforzo con i principi del randori, Etas, Milano.
Pierre Delorme (2015), Le arti marziali applicate agli affari. Gli insegnamenti del samurai per il guerriero imprenditore, Hermes Edizioni, Roma.
Bruce Lee (2019), Il Tao del Dragone. Verso la liberazione del corpo e dell’anima, Mondadori, Milano.
Bernard Moestl (2018), Kung-Fu e l’arte di rimaner calmi. I 7 principi Shaolin per l’autocontrollo, Feltrinelli, Milano.