Wellbeing
Francesca Rizzi
Novembre 2024
HO MOLTO APPREZZATO l’articolo di Jazz Croft, Acacia Parks e Ashley Whillans, perché documenta attraverso evidenze scientifiche il problema del “wellbeing mismatch” all’interno delle organizzazioni. Credo sia cruciale comprendere e analizzare questo fenomeno anche nel nostro Paese, soprattutto alla luce della posizione poco “lusinghiera” dell’Italia nelle classifiche internazionali sui livelli di burnout, malessere e dis-engagement all’interno delle organizzazioni.
Come Jointly, per primi in Italia abbiamo approfondito il fenomeno in collaborazione con l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano nella ricerca Il Corporate Wellbeing mismatch: come rispondere in maniera efficace alle aspettative di benessere dei lavoratori in azienda, dove emergono dati che confermano e contestualizzano l’analisi fatta nel loro articolo e linee guida strategiche che sono assolutamente simili e convergenti.
Prima di tutto, possiamo dire che tutto il mondo è paese. Così come negli Stati Uniti la gran parte dei datori di lavoro offre programmi di wellness, che però non rispondono efficacemente ai problemi di burnout e salute mentale, anche in Italia più della metà (64%) delle aziende ha un’offerta ampia e diversificata di servizi a supporto del benessere psicofisico dei propri collaboratori. Eppure, meno di un lavoratore su dieci (9%) sta davvero bene sul posto di lavoro e solo uno su quattro ritiene che la propria azienda si occupi concretamente del suo benessere.
Ma di quale wellbeing parliamo? Il primo elemento di convergenza da sottolineare è l’importanza di chiarire cosa intendiamo quando parliamo di wellbeing nelle aziende. L’articolo suggerisce l’importanza di passare da “I-frame” a “S-Frame”, ovvero passare da una moltitudine di singoli interventi – spesso incoerenti tra di loro – a interventi sistemici più ampi (“S-frame”). Per questo dobbiamo passare da un’idea (sbagliata) di wellbeing come singole iniziative che “curano i sintomi” a livello individuale a un concetto di corporate wellbeing come risultato di una life work experience che sostiene in modo coerente l’individuo nei bisogni personali e professionali, e permette di realizzare il proprio purpose all’interno dell’organizzazione.
Non è solo un problema definitorio: questo shift si deve tradurre anche in un’employee experience coerente con la promessa aziendale. Dalla nostra ricerca emerge che oggi in media sono sei diverse le piattaforme che un collaboratore deve utilizzare per accedere ai servizi di welfare e wellbeing. Sei diverse piattaforme, non integrate tra di loro, ciascuna con modalità di fruizione particolari: un paradosso che riflette la governance frammentata del welfare e del wellbeing in molte aziende italiane, tra funzione HR, il team di Welfare/Wellbeing (se presente), quello di Formazione e Sviluppo, Compensation & Benefit, oltre alle organizzazioni sindacali o gli Enti Bilaterali. Funzioni e strumenti diversi che rendono le iniziative se non incoerenti comunque meno efficaci. Per questo oltre al termine “carewashing” che trovo molto pertinente, parlerei anche – pensando alla buona fede di queste organizzazioni – di “care-caos”.
Un altro punto interessante, che accomuna quanto osservato negli Stati Uniti e in Italia, è la frustrazione dei collaboratori per servizi che sono un “palliativo”: è inutile offrire, per esempio, un supporto psicologico – magari deciso a tavolino – quando le problematiche sono più di tipo organizzativo che personale. E a queste si risponde – come giustamente suggeriscono gli autori – con un approccio più olistico che parta dall’ascolto. Anche qui un dato di contesto italiano: in base ai dati raccolti da Jointly tra il proprio network di aziende, la maggioranza (56%) ha costruito la propria offerta di iniziative e servizi dedicati al benessere in modalità “top-down”. Così facendo, le iniziative e i servizi rischiano di essere meno efficaci nel promuovere il benessere, se non controproduttive.
E, infine, come non condividere l’esigenza di sostenere i cambiamenti strutturali con obiettivi e metriche chiare: non si può migliorare ciò che non si può misurare. A oggi, però, la metà delle imprese (40%) in Italia non ha strumenti per valutare se un’iniziativa è stata efficace e spesso i KPI non sono specifici. Facciamo un esempio: molte organizzazioni raccolgono dati sul tasso di soddisfazione o di partecipazione a una determinata iniziativa, ma non monitorano poi il miglioramento del benessere psicofisico o il miglioramento nella gestione vita lavorativa-vita privata o l’impatto in termine di engagement che queste iniziative hanno comportato. Per occuparsi del benessere organizzativo e personale delle proprie persone, l’azienda dovrebbe invece stabilire una strategia coerente con le esigenze organizzative e in linea con la strategia di business. Inoltre, dovrebbero essere definiti obiettivi e KPI utili a monitorare che la strategia venga effettivamente realizzata.
Certo, un approccio organizzativo olistico al benessere dei propri collaboratori è più complesso dei benefit “mordi e fuggi”, ma se la strategia viene definita sul medio e lungo termine può portare dei risultati sorprendenti: triplicare il tasso di engagement (dal 19% al 54%) – i dati sono della nostra ricerca con l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano – e aumentare di quasi cinque volte (dal 5% al 23%) il tasso di collaboratori “felici”. Un investimento quindi che ha un ottimo ritorno e che, in un’ottica di crescita di lungo termine del business, non può più essere procrastinato.
Francesca Rizzi è CEO e founder di Jointly