ORGANIZZAZIONE
Anna Zanardi Cappon
Ottobre 2024
Amazon terminerà presto lo smart working, relegandolo in soffitta insieme alle lucine di Natale, ai festoni e alle ghirlande da appendere all’uscio di casa nel periodo delle feste. Da gennaio 2025, tutti i dipendenti torneranno in ufficio. Per 5 giorni a settimana. Bye bye smart working, figlio di quella remotizzazione forzata ed emergenziale che è stata il colpo di reni dato in pandemia per salvare il salvabile, diventato nel tempo “Sua Maestà la nuova normalità” e, oggi, finito sul banco degli imputati. Fa strano, e non perché la decisione arrivi da una “big”. Fa strano perché quella è una big di un settore, il tech, che in tempi di Covid ha pilotato la sterzata che, a macchia d’olio, ha indotto un’infinità di organizzazioni, le piccole come le grandi, di qualunque settore, a ripensare il lavoro, e soprattutto a rivederne in modo radicale le dinamiche operative.
A poco meno di 5 anni dall’avvento della pandemia, dunque, qualcosa si muove. Con velocità diverse da caso a caso, certo, per cui ad Amazon spetta il ruolo di prima big tech a reintrodurre la settimana in ufficio tout court, mentre altrove (stesso settore, aziende diverse) il moto è più contenuto e graduale, con policy che vengono ritoccate di quando in quando per ridurre progressivamente lo smart working, ma non per eradicarlo. In quel “mondo di mezzo”, in cui il lavoro in presenza era pian piano rientrato nelle routine con sapienti dosi di part time verticale o, in casi più creativi, orizzontale, ci è passata anche Amazon, per dirla tutta. 3 giorni in ufficio, 2 a casa. Poi, a un certo punto, ha deciso di andare oltre. E non è l’unica ad averlo fatto.
Da OpenAI (il cui AD Sam Altman su Futurism ha definito lo smart working “uno dei peggiori errori dell’industria tecnologica”) a Twitter (con l’arcinoto Elon Musk finito “sulla graticola” per aver definito il lavoro in ufficio “non facoltativo” - e dunque non negoziabile) e da Netflix a Goldman Sachs (con politiche assolutamente stringenti e blindate per il remote), c’è chi dice “no”. O, al limite, “ni”, se consideriamo il mare magno che intercorre tra il fronte degli “office-first”, da un lato, e quello dei “remote-first”, all’altro estremo del continuum. Un mare magno in cui si agitano Disney (4 giorni su 5 in ufficio), Google, Meta e Apple (3/5), e poi Microsoft, Revolut, Spotify, Grammarly. Perfino Zoom (2/5), che in pandemia ha costruito parte consistente delle sue fortune proprio sul business delle call da remoto.
Il trend (ma di trend si può davvero parlare?) assume toni eclatanti se osservato nella prospettiva di aziende “tradizionalmente” più “tech-friendly”. Ma ciò non significa che anche altrove, in industry cioè che, a paragone, presentano un DNA meno incline a maneggiare in modo continuativo le innovazioni tecnologiche, non si stia assistendo a tentazioni analoghe. Di casi pronti a salire alla ribalta delle cronache iniziano ad esisterne tanti anche in Italia. Viene da chiedersi: lo smart working è ancora vivo, o l’onda lunga dei rinunciatari l’ha già trascinato al di sotto dei marosi?
E ancora: quanto è davvero lunga quell’onda lunga? Ovvero: quanto siamo effettivamente prossimi a una nuova “Apocalisse” nell’organizzazione del lavoro che livelli il “new normal”, la nuova normalità, per affermare una forma più o meno intensa e/o graduale di ritorno al passato? In verità, ancorché legittimi, questi quesiti non sono, forse, quelli che invocano le risposte più urgenti. La domanda vera, probabilmente, è estremamente più basica. Perché? Perché tornare alle dinamiche improntate alla presenza, parziale o addirittura totale? Perché dismettere all’improvviso quello che ci stavamo abituando a considerare l’evoluzione assoluta dell’insegnamento-principe della stagione di lockdown, un qualcosa che esistenzialmente parlando costituiva forse la dimostrazione pratica dell’essere riusciti, nonostante tutto, a cavalcare anche la peggiore (e più imprevedibile) delle tigri?
Amazon, Google, Netflix e compagnia cantante non hanno optato per l’inversione di rotta né per un bieco esercizio del potere, né per un banale capriccio. Ciascuno a proprio modo, e col proprio mix di routine lavorative, ha deciso di mandare al macero, in parte o in toto, lo smart working, con almeno una consapevolezza di base. Che, essendo grosse realtà (per fama o per dimensioni), e come tali tendenzialmente più esposte ai riflettori del pubblico dibattito, quella scelta l’avrebbero dovuta in qualche modo non solo portare fino in fondo (non ci si imbarca per una crociata per poi fare dietrofront come se nulla fosse), ma soprattutto argomentare – e in modo convincente - sulla pubblica piazza. Per far questo, ciascuna doveva avere dalla sua almeno un’ottima ragione.
A volte, quell’ottima ragione si prestava a essere in certa forma spalleggiata anche dai numeri. È il caso della nutrita serie di rilevazioni in tema anti-smart in cui ricade anche un’analisi finita sul Wall Street Journal in base alla quale chi lavora in ufficio godrebbe di 12 minuti di produttività in più al giorno. Bene, non benissimo, specie se il dato viene paragonato a quanto invece riportato in tema, ma con segno contrastante, da Bloomberg, che cita una ricerca dalla quale risulta come gli smart worker siano il 13% più produttivi dei colleghi. Allora, forse, questo dato che è ancora distante dal diventare evidenza assoluta si situa appena un gradino più in alto di altre considerazioni “pro-ufficio”, ivi incluse quelle a tinte più fosche. Che lamentano, invece, come dietro all’imperativo di tornare ci siano anche massicce tentazioni di area “command & control”, che si addensano attorno a un pugno di timori che investono la perdita delle cosiddette 5 C (controllo, cultura, collaborazione, contributo e connessione) e che, citando un tweet di Annie Auerbach, esperta di futuro del lavoro, si riassumono nel paradosso zen: se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Ovvero: se un capo è da solo in ufficio, è ancora un capo?
Tutto questo si trova ad anni luce di distanza, invece, dall’ottima ragione cui si accennava in precedenza. Anni luce perché, piuttosto che esaurirsi in prese di posizione facili e manichee, quanto sinora esposto consente di enucleare anche cosa ci sia di buono dietro una forma di ri-accostamento all’ufficio. Soprattutto, perché in questo caso il termine “ufficio” non indica pedissequamente un luogo destinato all’esercizio di un’attività professionale non coincidente con l’abitazione della persona che la esercita (tanto per parafrasare quanto stabilisce in proposito Treccani), quanto piuttosto un eco-sistema nel senso più puro ed estensivo della parola. Ovvero: un ambiente che rappresenta l’unità ecologica fondamentale, costituita dal complesso di coloro che lo abitano e innervata dal complesso di relazioni che qui si stabiliscono ed evolvono.
“Quando guardiamo indietro agli ultimi cinque anni, vediamo quanto i vantaggi dello stare insieme in ufficio siano stati significativi. Abbiamo osservato che è più facile per i nostri colleghi imparare, modellare, praticare e rafforzare la nostra cultura; collaborare, fare brainstorming; insegnare e imparare gli uni dagli altri è più fluido; e i team tendono a essere meglio connessi tra loro.” L’ottima ragione parte dalle parole di Andrew Jassy, CEO Amazon, ma produce echi un po’ ovunque. Più che echi, forse, sono i cerchi concentrici nell’acqua dello stagno, che si allargano progressivamente a partire da un punto d’origine. E che però, allargandosi, danno forma all’onda lunga. Se questa si dimostrerà davvero tale, e se dunque tutti torneremo a una dieta più estensiva in termini di presenza in ufficio, tra le tante motivazioni, sbandierate o sottotraccia, vere o verosimili, andrà tenuta in adeguata considerazione anche quella dell’ecosistema-ufficio.
Non come declinazione di un “mero” calcolo produttivo, ma prima ancora come necessità di un riappropriarsi più intimo, più sociale e socializzante, e che ha infinitamente a che fare con la compresenza fisica. Allora, forse, non ha granché senso prendere una posizione a favore o contro lo smart working. Non ha senso, cioè, optare per il “sì” o per il “no”. Piuttosto, serve capire un perché promuoverlo o perché osteggiarlo (e come). Tenendo possibilmente a mente un discrimine fondamentale. Fare smart working non equivale ipso facto a lavorare da casa (che invece è remote working).
Chi fa smart working ha alle spalle un’attività articolata per obiettivi ed è investito di un certo grado di autonomia decisionale, e questo sia lato organizzazione del proprio tempo che rispetto alla responsabilità che porta direttamente sulle proprie spalle. Ergo, lo smart working non si improvvisa, e di conseguenza non ha nemmeno nulla a che spartire con le misure emergenziali che tutti abbiamo sperimentato in pandemia (quello della remotizzazione forzata, cioè, non è mai stato vero smart working). Piuttosto, è qualcosa che può ingenerare un surplus in termini di soddisfazione ed engagement delle persone perché, come già accennato, veicola un maggior grado di autonomia, di responsabilità, di organizzazione per obiettivi e, di qui, di coinvolgimento, con ricadute positive che tracimano anche sulla qualità della vita.
Questo benessere, che è cosa tangibile per gli smart worker, diventa latente – a volte addirittura latitante – per chi esperisce condizioni lavorative di remotizzazione totale in cui, di contro, gli effetti positivi si diluiscono fino a essere tendenzialmente fagocitati da altro, e di segno opposto. Mancanza di socialità. Assenza di occasioni tangibili di confronto. Senso più o meno radicato di solitudine. Difficoltà ad apprendere e, così facendo, entrare nell’organizzazione, specie per gli elementi a minor seniority (anagrafica o “di servizio”). Se lo smart working in sé ha senso solo se “fatto bene”, l’antidoto a problemi come quelli messi in luce dalla remotizzazione continuativa, parimenti, passa attraverso una “sana”, nel senso di ben congegnata, compresenza all’interno dell’ecosistema-ufficio.
In un caso (smart working) e nell’altro (presenza), allora, non occorre pronunciarsi a favore o contro, quanto piuttosto attivarsi per discernere – col maggior grado di esattezza possibile – le attività che possono, e anzi devono, essere realizzate in solitaria e a distanza, e che al contempo contribuiscono ad arricchire il senso della professione in quanto esperienza, capace di bilanciarsi e non confliggere con la dimensione personale, da un lato, e quelle invece realizzabili in ufficio in quanto ottimizzate dalla variabile della prossimità fisica, dall’altro. Tertium non datur, a meno di non voler adottare una prospettiva nel migliore dei casi eufemisticamente miope.
Perché tanto dallo smart working quanto dalla compresenza abbiamo appreso lezioni importanti, che non possiamo permetterci di dimenticare, mettere da parte, disperdere o gettar via con l’acqua sporca, come il bambino della saggezza popolare. Perché, se è incontrovertibilmente vero che negli ultimi anni tanto si è magnificato lo smart working (anche se non di rado cadendo nell’equivoco già menzionato, cioè confondendolo col lavoro da remoto o, peggio ancora, con quello pandemico), forse dobbiamo attenderci una nuova fioritura di lodi anche per quello in presenza. E questo nonostante siamo già abbondantemente entrati nel “secolo dell’Intelligenza Artificiale”. Che di suo spinge per plasmare un ambiente sempre più dominato dalla progressiva digitalizzazione delle interazioni come dei processi, siano essi di natura interna (tra colleghi) o esterna (rivolti cioè a clienti, fornitori, stakeholder).
Se su questa falsariga diventa sempre più plausibile l’ipotesi che algoritmi e macchine scalzino il presidio umano su un vasto conglomerato di processi e servizi di produzione, allora tanto più urgente diviene, per le persone come per le organizzazioni, evolvere in direzione di un ri-orientamento delle loro attività in base a un contributo a valore aggiunto che sia superiore, e come tale ancor più capace di generare innovazione. Come coltivare il senso autentico della presenza, in un panorama simile, e soprattutto perché? Cosa porre a fondamento dell’unione tra persone in uno spazio fisico, nell’era del delocalizzato-automatizzato-istantaneo? Forse, un nuovo principio ispiratore, che promana da una motivazione differente, “depotenziata” di portati meramente strumentali.
Giunto il tempo dell’IA che polverizza e rende inutile lo spazio fisico, alle persone non resta che coltivare la necessità di riunirsi non per mera aggregazione funzionale (occupare il medesimo luogo col fine di “fare”, ovvero di svolgere un determinato compito, fatto e finito), ma per condivisione. Condivisione di interessi. Di obiettivi. Di aspirazioni. La condivisione è il fulcro. Perché prevede l'utilizzo in comune di una risorsa, di un bene o di una conoscenza, in una dinamica che è strettamente correlata a un processo che prevede il dividere e il distribuire. E si tratta di un concetto biologicamente fondato, naturale: quando un organismo si nutre o respira, i suoi organi interni sono costruiti in modo tale da dividere e distribuire l'energia in ingresso, così da rifornire le parti del corpo che ne necessitano.
Organizzativamente parlando, e calando tutto questo nelle aziende dell’immediato domani, dovremmo presto abituarci a operare una sostituzione nel modo in cui tradizionalmente guardiamo alle imprese. Da organizzazioni strutturate a insiemi di “club”, ovvero di comunità che condividono valori e metodologie di lavoro. Popolate di persone che sono e restano insieme non tanto e non solo per fare cose, ma per condividere esperienze, creare nuovi prodotti, generare innovazione. Nel club si impara insieme e il club costituisce esso stesso una ragione nuova, e più convincente, per stare insieme. Un nuovo modo per formare coesione, coltivare passione, e sviluppare senso dello scopo. Se l’onda lunga della messa al bando totale dello smart working si dimostrerà davvero tale in termini di radicalità, epurando la nuova normalità per sostituirla con un nuovo-vecchio modello, avremo perso quanto di buono abbiamo sviluppato a partire dai giorni del Covid. Se invece rifluirà del tutto, rischieremo di privarci di tutto questo.
Perché, forse, dietro i discorsi di Amazon & Co. c’è anche una quota parte di maquillage, messo lì ad arte per diluire il palesarsi di tentazioni ben più terrene, dirette eredi di un vetusto gioco al comando e controllo. Ma noi viviamo in tempi di fiducia, e allora può essere saggio concedere il beneficio del dubbio e affidarsi così al dato di fatto che, insieme e in compresenza, è più facile imparare, modellare, praticare e rafforzare una cultura. Confrontarsi e collaborare. Insegnare e imparare, gli uni dagli altri. Stabilendo una connessione che è più e oltre il semplice fare. È condividere, e questo forse è un dono già per l’immediato presente, Intelligenza Artificiale o meno.
Anna Zanardi Cappon, International Board Advisor e Change Consultant, esperta di trasformazione organizzativa e strategia, affianca i Ceo ed il Top Management (100+ AD) di aziende quotate e private (18 delle quali presenti nel ranking Fortune Global 500), istituzioni no-profit, enti governativi. Economista, psicologa, teologa, autrice di 20+ libri sulla leadership, ha insegnato in università italiane e straniere. Siede in diversi consigli d’amministrazione da Independent Director. Prima autrice italiana (e fra i primi autori in Europa) a pubblicare un libro sul coaching (Coaching Automotivazionale, FrancoAngeli, 1999), collabora con testate nazionali ed internazionali (tra le quali Forbes UK, HBR, Linkiesta, FOR). https://www.annazanardi.com/
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