ORGANIZZAZIONE
Nicolò Boggian, Danilo Taglietti
Aprile 2024
“Futurology is a dangerous and mysterious art”: così è solito chiosare i suoi studi critici sulle organizzazioni educative il noto accademico britannico S. J. Ball (The Education Debate). Già da tempo, infatti, siamo immersi in un clima culturale che ci proietta continuamente verso il futuro e la sua predizione. Si sprecano le ricerche, così come i sondaggi o i TedX speech, che predicono il futuro: dell’educazione, dell’economica, dell’ambiente, della leadership, delle organizzazioni.
Lavorando ormai da anni sul funzionamento di queste ultime e sui modelli organizzativi che vengono praticati al loro interno, sulla percezione che ne hanno i lavoratori e su come tutto questo sia “effettato” dai mutamenti tecnologici e sociali in corso, ci azzardiamo oggi a scrivere del futuro. Non il futuro da predire, però. Restiamo convinti, infatti, della validità della citazione da cui siamo partiti. Piuttosto: un futuro “in the making”, già in corso di produzione, un futuro che desideriamo e che convintamente pensiamo sia un bene da realizzare.
Già da anni, ormai, una buona parte delle organizzazioni, in particolare tra quelle ad alta penetrazione di tecnologia e digitalizzazione, vive (spesso senza focalizzarlo esplicitamente) una fase storica cruciale, caratterizzata da cambiamenti che attraversano i contratti, le modalità di lavoro e di collaborazione, la comunicazione interna, la definizione degli obiettivi da raggiungere e perfino la struttura stessa dei mercati del lavoro e dei settori economici di appartenenza. Potremmo dire che stiamo assistendo all’emergenza di un processo di isomorfismo: cambiamenti ambientali che producono (e sono prodotti da) cambiamenti organizzativi comuni a tutte le aziende.
Già abbiamo diffusamente parlato altrove di vari aspetti specifici di questo processo, ma vogliamo qui rimettere a fuoco quello che, per noi, è il punto centrale: ciò che sta cambiando è la natura stessa delle aziende e della loro organizzazione, la loro ragion d’essere, il loro modo d’intendersi riflessivamente e di prodursi quali meccanismi di sensemaking.
Per capire cosa intendiamo, si può partire dalla metafora con cui vengono solitamente descritte le organizzazioni: una macchina, una rete o un castello. Si tratta sempre di metafore che raccontano e spingono a guardare gli aspetti discreti, misurabili, definiti e perimetrati di un’organizzazione. La macchina, il castello e la rete, infatti, sono espressioni che rappresentano la staticità e la prevedibilità di una formula organizzativa, la sua articolazione strutturale in elementi distinti variamente incastrati l’uno nell’altro: tutto ha una propria posizione, fissa o mobile, ma chiara. Se togliessimo una pietra ad un castello, si creerebbe un buco nel muro. Se tagliassimo un nodo di una rete, si smaglierebbe. Se spostassimo un ingranaggio di una macchina, non funzionerebbe più.
Forse davvero le aziende sono state macchine, reti o castelli. O forse no. Ma ciò che qui più ci importa non è ricostruire il passato, ma fabbricare il futuro. Queste metafore, oggi, certamente non appartengono alla realtà dei fatti. Anzi, di più: guardare alle organizzazioni con lo sguardo di queste metafore diventa un “freno a mano tirato” per la passione, l’energia e le risorse che lavoratori, imprenditori ed investitori possono mettere in gioco in un’attività economica, diventando così un limite sostanziale alla soluzione dei problemi posti nel mercato.
Per meglio inquadrare cosa siano le organizzazioni oggi e cosa vogliamo che esse siano domani ci sembra necessario cambiare metafora e passare da quella della macchina (o rete, o castello) a qualcosa che metta in gioco i processi: mutevoli, fluidi, indeterminati, continui. L’azienda oggi assomiglia più a un viaggio (o un insieme di viaggi) in cui vengono manipolate costantemente competenze e attività, utilizzando risorse e opportunità che emergono durante il percorso.
Ecco, quindi, che un’organizzazione che sia viaggio deve poter percorrere strade diverse, asfaltate e sterrate, attraversare ambienti aridi o pluviali, essere esposta a climi temperati o torridi, regolare la propria velocità a seconda delle esigenze, ecc. Ad esempio, è solo utilizzando questo sguardo che diventano comprensibili le trasformazioni vissute nei decenni da Amazon, che ha iniziato come rivenditore di libri online per poi diventare il più grande marketplace occidentale, passando poi per gli assistenti vocali domestici, le piattaforme di home entertainment e home cinema, senza trascurare gli enormi investimenti (e ricavi) nei servizi in cloud e le sperimentazioni bio-mediche. Passando a ciò che accade in casa nostra, invece, possiamo guardare ai casi di Bending Spoons o di OneDay Group. Entrambe queste aziende, trovata una mission iniziale, hanno poi “gemmato” iniziative diverse, in settori che vanno dal mondo dei viaggi a quello della scuola, dal real estate alle community, utilizzando come strumento i venture builder interni o le acquisizioni. Percorsi che sembrano suggerire l’idea che un’azienda, nel mondo tech e digital, debba necessariamente avere più focus e procedere per tentativi di prova ed errore in ambiti anche disparati, diversificando il proprio portafoglio, minimizzando il rischio da un lato e massimizzando la propria leva “ecosistemica” di talenti dall’altro.
Se partiamo dalla metafora del viaggio, poi, diventa immediatamente chiaro come organigrammi, funzioni e ruoli possano esistere solo nella misura in cui siano talmente flessibili da potersi adattare, quasi in una logica di “just in time”, se non addirittura di “near time”, alle necessità dell’organizzazione. È proprio questa mutevolezza, a nostro avviso, la caratteristica cruciale che innerva il modello operativo della cosiddetta plat-firm, o azienda-piattaforma, in cui tecnologia e funzionamenti danno fondamenta e supportano tanto il decentramento delle responsabilità quanto la diffusione pertinente di dati, flussi informativi ed opportunità. Ad esempio, un organigramma in cambiamento continuo assomiglia più a uno spazio topologico magnetizzato, in cui progetti e obiettivi sono gli attrattori che attivano trasformazioni ed emergenze libere di potersi poi sviluppare autonomamente. Questi processi di sviluppo “a progetto” attraversano, poi, molteplici cicli di incubazione di prodotti/servizi, utilizzo, manutenzione, obsolescenza e rinnovamento, pur rimanendo nell’alveo di una medesima identità aziendale e di un senso più generale che l’azienda e le persone continuamente (ri)producono.
Ma è davvero possibile parlare oggi di una stabile identità aziendale? E come si coniugherebbe, in un simile contesto, la fluidità dell’ambiente con la protezione dal rischio d’inconsistenza? Come possono le nuove organizzazioni continuare a offrire quei sistemi di regole, coordinamento e sicurezza ontologica che hanno innervato la vita sociale dei lavoratori fino a oggi e la medesima comprensione che questi hanno di sé stessi e del proprio ruolo?
Quel che ci può aiutare è, ancora una volta, il ritorno alla nostra metafora. Un’azienda che non sia un castello, ma che si viva come un viaggio, richiede altrettanta preparazione e organizzazione, come ben sa chi deve affrontare un lungo percorso: sopravvivere e prosperare in ambienti variegati, adattandosi a situazioni impreviste ed imprevedibili, non è frutto di casualità o di improvvisazione, ma di preparazione. Quel che differisce, però, è nella misura della stessa distanza che separa il progetto strutturale di un edificio dal ciclo di apprendimento e sensemaking continuo che caratterizza l’esperienza.
I lavoratori sono essi stessi il viaggio di un’organizzazione. La loro capacità di ideare e adattare, di inventare e di risolvere, di collaborare e desiderare non è il cuore dell’organizzazione, come è stato fino a oggi. Piuttosto, tutte queste capacità, questi processi, sono l’organizzazione stessa, diluita e diffusa ora in un “organizzare” continuo e senza sosta. Le competenze dei lavoratori non vanno più tutelate, coinvolte, formate e responsabilizzate. Piuttosto, è la loro dinamica e incessante produzione di senso che deve trovare nell’organizzazione le condizioni abilitanti alla fabbricazione di quegli ecosistemi complessi che, scavalcando confini amministrativi e geografici, producono il futuro. Si tratta di passare, insomma, dall’identità alla “risonanza”: i lavoratori non sono più fabbricati, identificati e assorbiti nella narrazione di una vita organizzativa più ampia ma, a partire dalle loro proprie affermazioni di esistenza, attraversano esperienze e mettono in campo pratiche che risuonano con la colonna sonora del viaggio aziendale.
È questo, insomma, il modello che può consentire alle nuove organizzazioni di muoversi, proprio come una ruota sulla strada da percorrere e a completa differenza delle vecchie organizzazioni, che sembrano muoversi con ruote cubiche. Tutta la società post-digitale che iniziamo a vivere si produce con plat-firm post-digitali che risuonano con lavoratori post-digitali. Ce ne rendiamo conto proprio ora, mentre entriamo in un periodo che sembra caratterizzato dalla scarsità (di persone, di competenze, di energie e di progettualità), ma che invece è alimentato da un humus tanto ricco quanto differente da quello passato. Istituzioni e organizzazioni devono attrezzarsi per capire come vivere al meglio questo vero e proprio cambio di paradigma, per moltiplicarne gli effetti al servizio di clienti, utenti ed investitori.
Nicolò Boggian è Founder di Whitelibra.com; Danilo Taglietti è Social Researcher @ UniNA | Entrepreneur @ Tonica S.r.l.