EDITORIALE
Enrico Sassoon
Gennaio 2024
Da oltre un secolo, le discipline manageriali dibattono su un punto focale che riguarda ogni organizzazione: il tema della leadership. In particolare, una domanda resta di norma o senza risposta, o con troppe risposte: la leadership è innata o può essere insegnata e, dall’altra parte, appresa? Le posizioni meno equilibrate tendono a dare molta enfasi all’innato rispetto all’appreso, o viceversa, come è d’altronde per il tema generale della formazione della personalità nella dinamica fra natura e cultura. Posizioni più equilibrate, ma forse troppo timide, tendono a bilanciare i due fattori: la leadership, si dice spesso, può essere insegnata e dunque appresa, ma questo apprendimento si realizza meglio laddove la personalità del leader sia già incanalata verso una significativa capacità di leadership.
In questo numero di Harvard Business Review il tema della leadership è affrontato sotto diversi angoli, di cui alcuni rientrano nel tradizionale solco di analisi, mentre altri appaiono decisamente innovativi. Consideriamo l’articolo di Hitendra Wadhwa, secondo cui i percorsi di apprendimento della leadership hanno certamente alcuni effetti positivi, ma possono venire ulteriormente potenziati impostando un approccio finora poco frequentato. Si tratta, infatti, di integrare e accelerare gli sforzi tradizionali incentrati sulle competenze per arrivare a mettere in funzione particolari percorsi neurali del cervello, cioè delle facoltà che tutti già possiedono, ma che non vengono abitualmente usate nel lavoro. In base a questo approccio, anziché un tratto caratteriale da acquisire, la leadership è una condizione da attivare. E, spostando l’enfasi dall’apprendimento teorico alla leadership esecutiva, si apre la possibilità di realizzare progressi effettivi e consistenti.
Nel suo articolo, Wadhwa illustra i principi più importanti di una leadership esemplare e trasformativa e afferma che i leader possono incarnarli attingendo alla loro essenza profonda, ossia al potenziale più elevato che hanno dentro, il loro sé migliore. La presenza al nostro interno di questa essenza profonda – uno stato di grazia a livello di performance, in cui siamo serenamente consapevoli delle nostre condizioni interne ed esterne, e che ci consente di adattare i nostri comportamenti – è, secondo l’autore, confermata da studi scientifici in campi diversi, tra cui la teoria cognitiva comportamentale, la psicologia positiva e la neuroscienza. L’idea appare alquanto audace, ma non necessariamente nuova: molti in passato, e anche oggi, praticano attività contemplative per entrare in sintonia con ciò che ritengono essere il loro spirito o la loro anima ed esprimerne le qualità nelle loro attività esterne. Wadhwa sostiene che i leader possono attingere alla propria essenza interiore con soli 10-15 minuti di preparazione in vista di un grosso evento, con un metodo specifico che chiama leadership-in-flow. E questa è una bella sfida.
D’altra parte, tutti sappiamo che uno stato di agitazione, ansia o turbamento conduce quasi inevitabilmente a una performance peggiore, per cui non si fatica a credere che uno stato di maggiore benessere mentale ed emotivo produca un risultato migliore. Va comunque messo in evidenza che il modello, che si fonda sia sull’antica saggezza sia sulla scienza contemporanea, si focalizza su cinque tipi di energia: il purpose, la saggezza, la crescita, l’amore e l’autorealizzazione. Approccio concettuale oggi crescentemente diffuso ma che non trova tutti allineati sullo stesso piano. Ma, promette l’autore, intraprendendo queste azioni, i leader possono affrancarsi da rigidi copioni comportamentali e felicemente migliorare le proprie performance. Così sia.
In un altro articolo Nitin Nohria, già preside della Harvard Business School, condivide senza tentennamenti l’idea che la leadership sia una sorta di “muscolo” che, con gli opportuni esercizi, può essere sviluppato. Ma, sulla base di indicazioni emerse soprattutto negli ultimi anni pervasi da più crisi di natura globale (quelle che in Rapporto Macrotrends chiamiamo le “policrisi”) mette in luce un aspetto di crescente importanza e sensibilità: i leader di norma trascorrono molto del loro tempo non tanto a perseguire gli obiettivi strategici che hanno fissato in sintonia con il team di vertice e il board, ma in modalità reattiva. Ossia, dedicano tempo ed energie, talvolta in misura preponderante, a reagire alle crisi invece che ad agire proattivamente. E questo nelle scuole di business e nei corsi di management e leadership non si insegna abbastanza, ammesso che lo si possa fare. La soluzione a questo problema è complessa e si possono leggere i suggerimenti dell’esperto nell’articolo.
Di fondo, emerge un’esortazione ben precisa: in tempi volatili e incerti come quelli che viviamo è indispensabile alzare tutte le antenne di cui disponiamo, disporsi a cogliere i segnali forti ma soprattutto quelli deboli, e reagire con prontezza sulla base di misure preventivamente organizzate.