LAVORO

I paradossi nel mondo del lavoro

Enrico Sassoon

Febbraio 2023

I paradossi nel mondo del lavoro

Elaborazione da Unsplash

Due fenomeni paradossali si stanno verificando nel mondo del lavoro. Il primo è quello delle cosiddette “grandi dimissioni”, espressione con cui si intende l’ondata di abbandoni in buona parte volontari che osserviamo da circa due anni. Si calcola che nel 2021, primo anno in cui si è scoperto con sorpresa questo fenomeno, le dimissioni siano state circa 1,7 milioni; un numero molto elevato di cui si sono date molte spiegazioni, ma anche molto imprecise. E che si è teso a ritenere abbastanza temporaneo, legato cioè alle difficoltà generate dall’esperienza della pandemia e dei lockdown.

Poi, però, abbastanza a sorpresa le grandi dimissioni non solo non sono diminuite nel 2022, ma sono aumentate, a circa 2 milioni. Un numero abbastanza elevato da richiederne una comprensione più puntuale. Così ora si cerca di spiegare questa situazione, che abbiamo in comune con gli Stati Uniti, ma solo in minor misura in altri Paesi europei, con motivazioni diverse, che vanno dall’insofferenza per ambienti di lavoro poco coinvolgenti fino a stanchezza e burnout dovuti a forti incertezze in un ambito più ampio di quello strettamente lavorativo. Nella migliore delle ipotesi la ragione di questi abbandoni si ricollega a speranze diffuse di possibile miglioramento, sia in termini economici sia di contenuti del lavoro, specie per le generazioni più giovani. In sostanza, si lascia per ottenere condizioni migliori in un ambiente più motivante. E lo si fa spesso senza avere già in mano un nuovo posto di lavoro.

Si tratta indubbiamente di una situazione nuova che indica un cambiamento di mentalità estremamente significativo, specie se si mette a confronto con la recente notizia di concorsi per posti di lavoro nel pubblico impiego in cui i candidati, in passato in numero esorbitante rispetto ai posti disponibili, sono risultati invece di molto inferiori. Dunque, par di capire che vi sono ormai schiere di persone, specie fra i giovani, per le quali i contenuti, l’ambiente e i valori legati al lavoro fanno premio rispetto a obiettivi quali la sicurezza economica e la stabilità in un quadro di continuità garantita. Se non può che lasciare perplessi il numero di dimissionari, può invece rincuorare verificare che chi lascia nutre solide speranze di trovare nuove e più interessanti opportunità in tempi ragionevoli. Per questo obiettivo si è disposti a rinunciare a una parte di reddito, cosa che non sempre può essere spiegata con condizioni personali o familiari di vantaggio, poiché non sembra che questi abbandoni si concentrino in fasce più “privilegiate”.

Questo il primo fenomeno. In Italia, però, ve n’è un secondo di altrettanto difficile decifrazione. È quello dei giovani che a lavorare non hanno neppure iniziato, che nemmeno lo cercano il lavoro, e che non hanno neanche l’intenzione di frequentare corsi scolastici o professionali per crearsi le condizioni per l’occupabilità. Questo gruppo è ormai abbastanza noto con l’acronimo NEET, che in inglese sta per Not in Employment or Education or Training. E non sono quattro gatti, bensì una valanga, poiché il loro numero si aggira sui 3 milioni. La percentuale dei NEET italiani tra i 15 e i 29 anni è pari al 29,8%, contro una media del 16,4% nell’area Euro. Guardando agli altri principali Paesi europei, i NEET sono in Germania il 14,6%, in Francia il 17,4, in Spagna il 18,4 e in Grecia il 16,5. Siamo, dunque, i peggiori in UE e i secondi (dopo il Messico) tra i Paesi Ocse. Si tratta di oltre 2 milioni di ragazze e ragazzi nella fascia d’età considerata, ma la cifra supera i 3 milioni se aggiungiamo anche quella tra i 29 e i 35 anni. Come ci si poteva aspettare, c’è una non leggera prevalenza femminile di 1,7 milioni.

È un numero da emergenza nazionale ma che, e qui sta il doloroso paradosso, fa difficilmente notizia sui giornali, dove le segnalazioni sono piuttosto sporadiche e marginali. Se il fenomeno dei NEET è un’emergenza, la disattenzione pubblica è il vero dramma. Sembra prevalere un senso di rassegnazione che impedisce di dare le giuste dimensioni alla questione. E la questione è che abbiamo 3 milioni di giovani che non sono entrati nel mondo del lavoro e che non hanno alcuna prospettiva di farlo a breve. Domandarsi il perché è un obbligo morale ma è anche una sana esigenza economica dato che il mancato apporto di energia innovativa e creativa di queste fasce di popolazione costituisce un danno, per i giovani, per le imprese e per il Paese. Perché, dunque, si verifica?

Cito le spiegazioni di un grande esperto della materia, Paolo Iacci, che enumera alcune ragioni che vanno da un minimo di preoccupanti a un massimo di incredibilmente serie. Queste le principali:

La desertificazione dei valori fondanti di riferimento. Per i ragazzi il futuro non è più una promessa. Il mondo sembra non avere più niente da offrire e quindi, ai loro occhi, vengono meno le ragioni per cui battersi per un futuro migliore, che appare impossibile.

Un diffuso sentimento di alterità verso il lavoro nella società italiana, vissuto non più come mezzo di autorealizzazione, ma come una condanna a cui sfuggire. Questo senso comune è alla base del ritrarsi del mondo giovanile da un lavoro regolare, non più vissuto come un oggetto del desiderio.

Un frequente atteggiamento iperprotettivo da parte delle famiglie che prolunga sine die l’immaturità dei figli, implicitamente invitati ad un’adolescenza senza fine.

Un mercato del lavoro che talvolta comporta lunghi tempi di attesa. Esistono un mismatch professionale e una mancanza di orientamento scolastico e al lavoro che inducono i ragazzi a specializzazioni non richieste. In molti casi, la mancanza di prospettive a lungo andare porta a perdere ogni speranza e a smettere di cercare.

Un forte mercato del lavoro illegale che consente di tirare avanti con espedienti e lavoretti, nell’illusione che questa situazione possa protrarsi all’infinito.

Politiche pubbliche di sussidi a pioggia, non legati a politiche attive del lavoro.

Tutto questo nell’indifferenza generale con il risultato che, conclude Iacci, «i giovani NEET rischiano di scivolare in un vortice corrosivo fatto di insicurezza, disaffezione e perdita di fiducia in sé stessi. Dalla deprivazione economica ed occupazionale facilmente si rischia di passare a una deprivazione affettiva o esistenziale, basata sull’incapacità di reagire e risollevarsi».

C’è però chi, invece di rassegnarsi, reagisce. Ma anche questa non è necessariamente una bella cosa. Sono i giovani che, non trovando sbocchi professionali soddisfacenti, o non trovandoli del tutto, decidono di cambiar Paese. Un’emigrazione spesso di alto livello culturale e professionale che costituisce un ulteriore motivo di depauperamento dello stock di conoscenze del Paese, certamente solo marginalmente compensato dai flussi migratori in entrata.

Nell’insieme, si tratta di realtà che non possono essere sottovalutate né, tantomeno, ignorate. Esiste, e come, la possibilità di correggerle? Proveremo a dare qualche indicazione positiva e propositiva negli articoli che seguiranno.

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