Ci sono due modi in cui le organizzazioni – perlopiù - tendono a pensare al purpose. Il primo, a cui guardare con un certo sospetto, è tipico di chi colga il purpose nel segno di una grande retrospettiva, organizzando tutti gli eventi del proprio passato affinché disegnino un percorso che santifichi il punto al quale si è giunti. Restituito da questa prospettiva, il purpose non si chiarisce quindi che al termine dei giochi e, per questo, serve soprattutto a “legittimare” quel-che-è-stato alla luce di quel-che-ne-è-derivato, come se la situazione nella quale l’organizzazione si trova fosse sempre stata lo scopo ultimo a cui tendere. Di questo purpose, lesto ad acchittarsi di coerenze posticce e artificiose, “sono piene le fosse” e la sua adozione, tanto comoda quanto assolutoria, non ha alcuna vera ragione che esuli da sterili autocompiacimenti[1]. Il secondo modo, di gran lunga preferibile, appartiene invece a chi affronti il tema...